"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

24 settembre 2010

IL PESO DI UN MONDO NON NOSTRO


di Antonio G. Pesce - Norman Zarcone era un giovane dottorando in filosofia del linguaggio. Negli Sati Uniti avrebbe potuto essere assunto perfino dai laboratori di cibernetica, o lavorare spalla a spalla con i neuroscienziati. Ma in Italia ha trovato la morte: il futuro pesava troppo, e lo ha fatto precipitare dal settimo piano della facoltà, dopo aver fumato sul davanzale una sigaretta. Se uno non ce la fa, non è tutta colpa del società che gli vive accanto – si dice in questi casi.

A Capua, mentre bonificavano una cisterna, muoiono tre operai. Ovviamente lasciano mogli e figli alle lungaggini di un processo, alla fine del quale le famiglie dovrebbero avere il risarcimento. Frattanto dovranno arrangiarsi. Come si arrangiavano i loro congiunti – qualcuno dice che per lavorare, da quelle parti, si rischia ogni giorno. Ma peggio di perdere la vita c’è il pericolo di perdere la sfida per la sopravvivenza. E si sa che, se uno poi non ce la fa, non è mica colpa della società che gli sta accanto.

Nella fabbrica Fiat di Pomigliano d’Arco dirigenza e connivenze sindacali hanno imposto un nuovo contratto di lavoro. In Italia gli “altri” scioperano troppo, si assentano troppo, sono troppo poco flessibili. Perfino la sinistra ha nicchiato. Erano gli “altri” – quelli del passato – troppo massimalisti, e sono gli “altri” – quelli dell’altro lato – ad essere servi dei padroni. Se uno ad adeguarsi al nuovo andazzo non ce la fa, mica è colpa della società che gli sta accanto.

Pian piano, Marchionne ha imposto la sua filosofia industriale a tutta l’Italia. L’annuncio di Federmeccanica, che considera disdetto il contratto nazionale del lavoro, è di qualche settimana fa. Non è colpa loro: è il mondo che è cambiato. Bisogna accorgersene. L’estremo oriente galoppa col suo turbocapitalismo di marca comunista in cui trita la carne di miliardi di schiavi. Bisogna accettare le sfide, e se uno non ce la fa, la colpa non è della società che gli sta accanto.

Basterebbero questi pochi esempi a far venire il dubbio che questa società – la minestra che mangiamo per paura di dover scegliere il volo dalla finestra – non sia giusta. E che cambiarla in modo più equo non abbisogni di pretenziose strutture ideologiche. E che, ancora, dal momento che la forbice economica tra chi è triturato e chi tritura si fa sempre più ampia, non vi sia motivo perché la si tolleri un giorno di più.

Potremmo ricordarci una vecchia lezione, che voleva il mondo non già “dato” – come è dato dalle scienze naturali, sociali e psicologiche – ma costruito eticamente, cioè frutto dell’agire umano. Cioè, in poche parole, noi ce lo facciamo il mondo, e di quel che facciamo noi dovremmo assumerci responsabilità immediate e a lungo termine. Ma i più tacciano, mentre uno strano riformismo procede a forza di dogmi la sua creativa attività economica. È dagli anni Sessanta che la fantasia e il progresso sono al potere, ed hanno fatto più danni loro nel campo morale, pedagogico, politico e sociale, che millenni di arretrato bigottume.

La giustificazione della passività con qui assistiamo a questo stillicidio di dignità, di speranze, di vite non è che “altri” abbiano il coltello dalla parte del manico. È che “noi” ci siamo accontentati di aver un posto in fondo alla tavola, ed una forchetta con la quale pescare un po’ di quel che resta.



Pubblicato su L'Alba di settembre 2010

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