"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

24 novembre 2010

LA PATRIA CHE VERRA'





di Antonio G. Pesce- Ha suscitato molti nuovi interrogativi, più che dissipare quelli vecchi, la lista di valori che il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha letto durante il programma di Fazio e Saviano.

Si è parlato – a ragion veduta – del Manifesto dei conservatori di Giuseppe Prezzolini come fonte di ispirazione. E dunque di una visione alquanto ‘anglosassone’ della destra: del resto, Prezzolini trascorse molti anni in America, e non è un caso che, nonostante sia sempre stato presente nel Pantheon dei pensatori della destra nostrana, i giovani missini non se ne siano mai curati molto (forse ingiustamente: tant’è), preferendogli o la mera citazione di Giovanni Gentile, o la lettura alquanto superficiale di Julius Evola. E soprattutto tanti teutonici. Ai quali Pietro Vassallo, inascoltato profeta della destra italiana di stampo cattolico, da anni contrappone un parterre tutto nazionale, che ha il merito non solo di parlare un idioma conosciuto, ma anche di pensare un pensiero concreto.

Ma ai filosofi come Vassallo si preferiscono i politologi come Campi, e capita così che un discorso pronunciato davanti ad una decina di milioni di spettatori finisca per essere ‘corretto’ dal pensatoio del capo, segno evidente che il pelo muta, ma non viene meno il vizio di pensare a modo proprio, e di chiedere poi assensi che, se la coerenza dello spirito valesse più della comodità dell’esistenza, in tutta coscienza non potrebbero arrivare. Così è accaduto con una delle frasi più contestate di quel discorso, nel quale Fini decretava – chissà sulla base di cosa – la certezza della fine della Patria come «Terra dei padri».

Sia chiaro: Fini pone un giusto problema, cioè l’inclusione dei nuovi “cittadini”, di coloro che non sono nati da italiani, e perfino lontani dall’Italia, dalla ‘terra dei nostri padri’. Infatti, che questo sia un problema serio per una nazione come la nostra, che soltanto nel ’38 ha conosciuto ridicole teorie di stampo positivista, è indubitabile. Ma la soluzione è altrettanto seria? Sembra, semmai, trapelare un discorso troppo grande per il novello statista futuribile, che ci porterebbe a parlare, più che di morte della Patria, di «morte del Padre» seguendo la lezione di Massimo Cacciari. Ma allora la posizione di Fini si collocherebbe all’interno della deriva Sessantottina – ed è difficile attribuirgli perfino questo misfatto.

In realtà, a Fini qualcuno avrà citato seri studi compiuti da esimi storici sul senso della nazione dal Risorgimento ad oggi. Più che di Federico Chabod, parliamo di un nostro contemporaneo, Alberto Mario Banti dell’università di Pisa, tra i massimi studiosi del processo unitario italiano. In opere come La nazione del Risorgimento (Torino 2000), mette a fuoco il valore dei legami parentali, della iconografia cristiana e dell’onore nel processo unitario. La nazione vista come famiglia, dove l’etnia – in un senso che, dopo il Novecento, è stato inquinato da eventi che nulla hanno a che vedere con le vicende di un secolo prima – è il collante di ‘popoli diversi’ sparsi sull’intera penisola. Lingua, certo, ma non meno del sangue. Banti ne vede un esempio chiaro perfino nel ‘best seller’ della letteratura risorgimentale, quel libro Cuore che formò, a partire dalla fine dell’Ottocento, intere generazioni di italiani. In una pagina di quel diario vergata dal padre del protagonista si può leggere:«Perché amo l’Italia? Non ti si son presentati subito cento risposte? Io amo l’Italia perché mia madre è italiana, perché il sangue che mi scorre nelle vene è italiano, perché è italiana la terra dove son sepolti i morti che mia madre piange e che mio padre venera, perché la città dove sono nato, la lingua che parlo, i libri che m’educano, perché mio fratello, mia sorella, i miei compagni, e il grande popolo in mezzo a cui vivo, e la bella natura che mi circonda, e tutto ciò che vedo, che amo, che studio, che ammiro, è italiano».

Commetteremmo un errore – secondo Banti – se dessimo a queste parole significati che sono, invece, ‘postumi’. Ma è indubbio che questa visione della ‘patria’ venne superata già alla fine di quel secolo, quantunque Banti creda, invece, di no. Venne superata – tranne forse che nel propagandismo politico – perché l’Italia conobbe una reazione fortissima al positivismo, che invece si prestata a sostegno di queste tesi – o almeno ad una loro mite accettazione. E ‘natura’, in un autore come Giovanni Gentile (1875-1944), non ha più il senso ‘naturalistico’ che, tuttavia, Banti vi ha colto. Natura diventa il pre-supposto della mia esistenza: è la lingua, perfino la storia nella quale io sono immerso sin dalla nascita, ma che ancora vedo come qualcosa di esterno a me, un limite alla mia libertà. Questi nostri valori – non solo quelli morali, ma anche costituzionali – sono una imposizione per chi non li sente propri.

Qui è evidente l’analogia coi problemi a cui Fini ha dato una risposta forse un po’ troppo sbrigativa. Nel suo videomessaggio di venerdì, Fini ha citato Renan (1823-92):«La nazione è il plebiscito di ogni giorno». Un cambiamento in senso volontaristico, ma che non dissipa i dubbi sulla nuova cittadinanza proposta dall’attuale presidente della Camera.

Perché il problema del battesimo civile si pone davvero, ma la politica fino ad oggi lo ha affrontato in modo assai ondivago. Fini stesso (e tanti altri con lui) hanno citato la produttività economica degli immigrati per qualificarne, in un certo senso, la loro presenza nel futuro della nazione. Ma c’è da chiedersi: perché la nazione di censo sia da preferire ad una di etnia? Quello che oggi, dopo il nazionalsocialismo, può sembrarci obbrobrioso, prima di esso era da preferire a quella visione statica, retrograda di nazione, che chiamava alle urne solo il 2,5 % della popolazione. Perché se è la produttività che fa un cittadino, altre domande sono da porsi: quanto si deve produrre per esserlo? E chi non produce? Karl Marx, allora, non avrebbe torto a pensare il concetto di nazione come esempio dell’ideologia borghese – ammesso che ne avesse negli anni in cui il liberalismo ‘storico’ (e un po’ anglosassone) si declinava secondo gli usi e i costumi della morente borghesia dell’epoca.

Ci può essere una nuova visione della Patria? Padre non è solo chi genera alla vita, ma chi impronta un’esistenza. Seppur importanti, i legami di sangue non sono decisivi. E neppure il suolo lo è. Lo è, invece, l’educazione: la storia che si fa vita nel farsi speranza. Ma l’educazione – non nascondiamocelo – impone la chiarezza dei ruoli: chi educa e chi è educato.

Oggi pare che né la scuola – quale migliore lavatrice civile conosciamo? – né la politica abbiano in sé la giusta ‘fede’ da trasmettere all’altro. Chi non canta l’inno nazionale, ritenendolo un canto di asservimento, può poi insegnarlo agli altri? Chi rinnega la Patria attuale, può trasmettere quella che verrà?


Pubblicato il 20 novembre 2010 su www.cataniapolitica.it

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