"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

22 novembre 2010

LA FORTE FEDE NEL PENSIERO DEBOLE


Dario Antiseri – Gianni Vattimo, Ragione filosofica e fede religiosa nell’età postmoderna, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. VI-70.


Il testo riproduce le relazioni tenute dai due autori alla LUISS nell’ottobre del 2007, precedute da un’introduzione di Corrado Ocone, secondo il quale ‹‹quello tra Gianni Vattimo e Dario Antiseri è un incontro-scontro … che a noi sembra adempiere perfettamente alla chiarificazione di idee che agitano su tematiche “essenziali” i nostri giorni – una chiarificazione che è il presupposto imprescindibile per operare con discernimento etico, cioè in modo responsabile, nella società››. E infatti, già dai titoli dati agli interventi - Una bioetica post-moderna, quello di Vattimo; Pensiero debole, ragione filosofica e spazio della fede, quello di Antiseri – si intuisce che in ballo c’è la riflessione intorno a questioni troppo spesso urlate dai giornali e oggetto di contrapposizioni standardizzate dall’ideologia, ma che vengono riprese in questo ‹‹incontro-scontro›› per essere ri-consegnati all’auditore arricchite dalla complessità più del metodo che non del risultato.

Una bioetica post-metafisica, dunque. Ma perché proprio post-metafisica? Con uno stile che risente della natura colloquiale dell’incontro, Vattimo afferma di avercela ‹‹a morte con la metafisica››, come del resto Heidegger , definito dal filosofo torinese un suo ‹‹grande maestro››. È stato proprio Heidegger a compiere il grande capovolgimento di prospettiva, pensando l’essere come evento in opere quali Contributi alla filosofia. Dall’evento: ‹‹Se l’essere è evento – dice Vattimo – ciò che ascoltiamo per capire come vivere al mondo sono gli eventi, cioè l’essere nella sua datità, nel suo darsi di volta in volta diverso nelle epoche, nei paradigmi, nelle aperture storiche››. Dunque, un essere che si dà, e che si dà di volta in volta, nelle varie epoche che si susseguono. Si capisce come questo modo di intendere l’essere sia ben diverso, per esempio, dalla metafisica di Platone che ‹‹dà luogo alla costruzione di un ordine sociale determinato››, dal momento che ‹‹l’essere e l’essenze sono definibili una volta per tutte››. Ma questa univoca e definitiva unità non è più pensabile: ‹‹Se Dio è morto, come afferma Nietzsche, a morire è soprattutto la pretesa di pensare una unità della verità››. La tradizione, allora, è l’orizzonte entro cui si staglia la nostra comprensione dell’essere, anche se, come dice lo stesso Vattimo, all’interno di questa possiamo ‹‹articolare diversi fili conduttori››: ecco quel che intende l’autore con l’espressione ‹‹tradizionalisti multiculturali››. Ora, dal momento che la tradizione è ‹‹tutto questo insieme di cose››, come scegliamo la condotta da seguire nel relazionarci con gli altri? Non certo ‹‹in base al criterio della verità assoluta››, ma secondo carità: ‹‹scelgo soprattutto quelle interpretazioni e quelle soluzioni che mi permettono di guardare l’altro senza vergognarmi››.

Questo in soldoni il pensiero debole, o meglio il pensiero dei deboli – come viene ribattezzato da Vattimo: un pensiero speculativo ed etico post-metafisico, dunque privo di norme, ma non per questo non normativo, anzi: possiamo sperimentare una normatività contrattuale, che nasce proprio dal fatto che ‹‹l’unica verità della verità è questa mia presentabilità al mio prossimo››. Questa carità non è un fondamento, tant’è che non ci dona un mondo univoco: amare l’altroaltro vuole essere eutanasizzato perché ha perso l’amore per la vita, il mio amore per lui mi deve spingere a farglielo riconquistare. significa amare la sua anima, cioè la sua libertà, e quando questo Ma, infine, non ho altra scelta che accettare la sua libertà, la quale nei casi di eutanasia si può ‹‹intendere anche come principio del consenso informato da parte dell’interessato o dei suoi tutori naturali››.

Questo pensiero, però, così debole da non essere fondativo, non lo è poi davanti al mistero della fede che cerca di piegare a se stesso: ecco l’obiezione che Antiseri prepara nella sua lunga parte, e che muove solo dopo aver mostrato, invece, i meriti del pensiero vattimiano. Antiseri già nel 1993, con un corposo saggio dal titolo Le ragioni del pensiero debole (ed. Borla, 2° ed. 1995) aveva riconosciuto a Vattimo il merito di aver riguadagnato al pensiero occidentale la contingenza dell’esperienza umana, e con essa i limiti della ragione umana, la quale aveva costruito durante il corso degli ultimi due secoli degli assoluti terrestri, che avevano emarginato la fede e tentato addirittura di cancellarla. La critica della ragione operata da Montaigne, Pascal e Kant ha aperto nuovi spazi alla religione, e questa debolezza del pensiero non è per nulla un focolaio di antireligiosità, come del resto aveva capito il vescovo Pierre-Daniel Huet, che nel suo Trattato sulla debolezza del pensiero, datato 1724, dopo essere stato un fervente cartesiano, affermava che non la limitata ragione umana, ma la fede ci dà una conoscenza certa. Si chiede allora Antiseri: ‹‹Erano nel torto pensatori quali Montaigne, Charron, Pascal e Huet? Non è il caso oggi di rifarsi a questa tradizione e affermare con tutta franchezza e onestà che la tradizione fondazionalista, nonostante i suoi meriti, appare in tutta la sua debolezza, rintanata in “nicchie ecologiche” protette?››, e cita il Karl Rahner di Fatica di credere che dà il benservito alla filosofia e alla teologia neoscolastica, anche sulla scorta dell’autorità del Concilio Vaticano II (che lo pensi Rahner è vero, che lo pensassero i Padri Conciliari è cosa ben diversa – basta vedere quale sia il teologo più citato nei documenti dell’assise conciliare per rendersi conto del contrario).

Insomma, la debolezza gnoseologica porta al crollo delle grandi illusioni, non già ai fondamenti della fede, che stanno ben oltre quelli issabili dalla ragione umana. E appunto per questo, Antiseri non accetta le modalità di apertura alla religione del Vattimo di Credere di credere, soprattutto quelle relative al cattolicesimo. Vattimo giunge al cattolicesimo perché è un “essere tradizionale”: egli è stato gettato qui, in questa condizione, e in questa condizione e in questo orizzonte egli non può non pensarsi cristiano. Meglio: non può non pensare cristianamente. Perché ‹‹esistere vuol dire stare in rapporto a un mondo: ma tale rapporto è insieme condizionato e reso possibile dal fatto che si “dispone” di un linguaggio … l’ermeneutica insiste sulla radicale storicità dei linguaggi››. Ovviamente, essere cristiano – cattolico - vuol dire, in questo senso, abbracciare una civiltà più che una fede; la croce, ma non il Crocifisso; una visione del mondo, uno stile di vita, ma non già un altro mondo, un’altra vita. Un ateo devoto – devoto a quel cattolicesimo ridotto alle dimensioni dell’epoca che viviamo. Ma - si chiede ancora Antiseri, ed è forse la critica a cui il noto epistemologo tiene di più, sicuramente la più profonda – si può credere a Gesù per il discorso della Montagna, e non credergli quando si proclama Figlio di Dio, ed Egli stesso Dio? Vattimo non vuole accettare contenuti irrazionali, ma non vede che, secondo la ragione, è scandalo per i Giudei e follia per i pagani questo Cristo che muore in croce per la redenzione dei nostri peccati e che, dopo tre giorni, resuscita promettendo la vita eterna? Si può accettare il Vangelo, purgandolo di quei passi che turbarono le coscienze già dei primi suoi lettori? Questo Gesù non è venuto solo a dirci come vivere, ma a dirci pure che la vita ha un senso: Vattimo rifiuta ‹‹l’idea bonhoefferiana del Dio “tappabuchi”, per la quale la via della ragione a Dio è la via dello scacco e del fallimento››, ma Antiseri commenta che non deve affatto scandalizzare un ‹‹Dio “tappabuchi”, se il buco da tappare è il senso della vita umana, il senso della sofferenza, della sofferenza innocente, della sofferenza dei bambini››. La via che porta a Dio, per Antiseri, è proprio quella del fallimento: di vitelli d’oro che si liquefanno come le ideologie che li avevano forgiati.

Insomma, mentre per Vattimo ‹‹ascoltare le parole del Vangelo, anche quelle più paradossali›› non richiede ‹‹il salto e infine una sorta di accettazione “irrazionale” dell’autorità››, per Antiseri è proprio il salto della fede che è necessario: ‹‹un uomo che si proclama figlio di Dio e Dio egli stesso; un Dio che muore sulla croce non sono “teoremi razionali”. Accettare che quel figlio del falegname, quell’uomo ora appeso sulla croce sia Dio è solo frutto della fede, esito di una scelta a parte hominis… e di un dono, della grazia, a parte Dei. Il salto e la grazia restano, dunque, gli ingredienti necessari della fede. E, quindi, ancora Pascal; e ancora Kierkegaard››.

Un dialogo che tocca nervi scoperti della nostra civiltà, e non solo per quanto riguarda la convivenza di soggetti in un spazio pubblico, ma anche, e diremmo soprattutto, per quanto riguarda gli aspetti più teoretici del discorso affrontato. Innanzi tutto, la critica delle capacità fondative della ragione non porta, di per sé, all’umiltà dell’individuo. Ne è dimostrazione Vattimo, che pensa minimalisticamente tranne quando si tratta di affrontare il problema del mistero della fede. Ma c’è da chiedere se sia possibile pensare, presupporre alle diverse aperture storiche, una apertura totale, o meglio pensare le aperture storiche come semplici squarci su un velo che copre all’uomo in quanto uomo – e non già ai figli della Chiesa innanzi al trono dell’Altissimo – la visione totale (sincronica) della verità dell’essere. Forse sì, e allora Antiseri avrebbe tutte le ragioni di concordare con Vattimo. Il problema è la conoscenza che ha l’uomo dell’essere o non è, piuttosto, l’essere stesso ad essere problema sempre chiarificantesi nella storia? Abbiamo ragione di credere che anche questa domanda non colga nel segno. E allora chiediamoci, indugiando sulla metafora, se Antiseri possa mai accettare che la risposta storica non sia altro che l’eco della domanda condizionata ontologicamente dalla propria storicità, e che oltre questa eco non sia dato alcunché, o se possa mai accettare che l’orizzonte non sia il limite dell’occhio umano collocato in una determinata posizione, bensì la vista stessa dell’uomo. Non credo. E allora non con Vattimo, ma è con Heidegger che vanno fatti i conti.


Antonio G. Pesce

Pubblicata in

QuaderniLEIF, Anno IV, n.5 gennaio-giugno 2010, pp.99-102.

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