"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

7 settembre 2011

Giambattista Vico e la lezione della Storia. Una lettura del testo di G. Zanetti

Gianfrancesco Zanetti, Vico eversivo.

Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 135, € 13,00, ISBN 9788815147301



Recensione di Antonio G. Pesce – 13/5/2011

Nel maggio del 1994 Donald Phillip Verene, filosofo americano ancora in forza alla Emory University, tenne quattro lezioni all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofi di Napoli. Il tema, che poteva sembrare insolito, era la presenza di Vico nel mondo anglosassone (diventerà anche un libriccino, pubblicato da Città del Sole l’anno successivo).
Approfondendo quelle appena abbozzate linee di ricerca, perfino chi scrive ebbe modo di constatare la ricchezza delle analisi di cui era stato fatto oggetto Vico nella lingua di Shakespeare. Non solo, ma in un contesto sociale come quello anglosassone (e ancora non erano usciti alcuni scritti di Rifkin né quello ben noto di Huntington), il filosofo napoletano ‹‹offre una via per pensare il mondo umano come totalità. Noi viviamo in una società frammentata e tecnologica, in cui non c’è un’unica immagine guida, una vasta esposizione delle nostre origini e del nostro ruolo nella storia›› (p. 9).
Leggendo quegli appunti, non stupisce tanto che anche gli Stati Uniti abbiano un proprio istituto vichiano, e che i New Vico Studies siano un apprezzato bollettino di studi sul Napoletano. Fa pensare, invece, quel che dichiara Verene, lasciando intuire anche la connotazione spiccatamente teoretica e non meramente filologistica della lettura anglofona (e statunitense in modo particolare) di Vico: ‹‹Ma l’elemento più importante è che Vico offre una via per pensare il mondo umano come totalità. […] Vico appare come una figura nuova che sembra parlare come un contemporaneo e rianimare in un modo nuovo gli interrogativi classici e le prospettive del pensiero antico e umanistico›› (pp. 9-10)
A questa linea interpretativa pare legarsi Gianfrancesco Zanetti, che i vichisti hanno avuto modo di apprezzare in altri saggi, pubblicati sul «Bollettino del Centro di Studi Vichiani» di Napoli. Del resto, lo stesso autore scrive: ‹‹Questo non è uno studio storico-filologico su Vico; è invece una riflessione sulla presenza nei suoi testi di temi e suggestioni che possono interagire in modo interessante con settori a mio avviso importanti del dibattito filosofico contemporaneo›› (p. 7).
Tra i temi a cui accenna Zanetti c’è quello dell’eguaglianza. Jeremy Waldron ne distingue due tipi: quella di base (basic equality) e quella normativa (equality as a goal). Ovviamente, in Vico non si può negare la presenza di quella di base; e l’autore, che conosce molto bene il testo vichiano e lo ha frequentato per anni, non la nega affatto – pensiamo all’opera di Solone e di tutti i “Soloni” che conducono all’Età degli uomini e alle repubbliche democratiche. Né, ancora, vuole negare che poggiare l’eguaglianza normativa su quella di base abbia un suo valore logico. Quello che Zanetti vuole fare, puntando sul meglio del pensiero filosofico italiano, è mostrare che la società, il “mondo”, è anche una costruzione etica, seppur intendendo per etica qualcosa di diverso da un’indagine che si fondi sul presupposto della razionalità senza alcuna considerazione delle emozioni.
La disuguaglianza tra ebrei e bestioni, tra storia sacra e storia profana, è data anche da ‹‹fattori istituzionali, come l’educazione›› (p. 27), e quando i plebei reclameranno uguaglianza, lo faranno perché – come recita la Degnità XCV - ‹‹gli uomini prima amano d’uscir di suggezione e desiderano ugualità››. Questa eguaglianza, frutto di conquista e non già di un fatto naturale, ha riverberi importanti su temi di scottante attualità. Zanetti ricorda il dibattito degli anni Sessanta negli Stati Uniti sui diritti della comunità afro-americana, ma noi possiamo argomentare più in generale: ammettiamo pure di sposare l’idea che l’eguaglianza sia un dato di natura. Davanti ad un QI intellettivo molto basso, come potremmo replicare? Possiamo impelagarci in una discussione sul valore di test di questo tipo, e potremmo anche citare visioni alternative sull’intelligenza umana. Rimarrebbe comunque il dubbio che le cose stiano in un modo, e che non ci sia alcun motivo per cui debbano mutare. Ma la descrizione di ciò che è non impone un disegno su ciò che ha da essere. Buona parte della nostra vita, infatti, è sorretta più da ciò che speriamo e progettiamo per il futuro, che da quello che possiamo constatare circa il presente.
Una visione dell’eguaglianza come obiettivo (as a goal) più che come fatto, ci permetterebbe di vedere in un QI basso uno stimolo alla ricerca di forme sempre migliori e più ampie di inclusione, oltre che essere una visione squisitamente etica del reale, perché considera gli uomini come fine, e come fine che si deve raggiungere ogni giorno di più, e non come un dato di natura meramente acquisito. In questo, dunque, mentre non nega la concezione naturale dell’uguaglianza, Zanetti dimostra di ripensare in modo originale più che Vico, i temi attuali del dibattito morale, soprattutto in campo anglosassone. In verità, egli non disdegna affatto quella tradizione italiana che nella storia, più che un volano di dottrine relativistiche, ha saputo vedere quel farsi del mondo e dell’uomo – del mondo dell’uomo – che è questione più di scelte che di teoremi.
C’è etica, però, laddove si riconosce l’esistenza di una comunità, dalla quale ci si sente interrogati. Nel secondo capitolo, Zanetti fa sua la distinzione proposta da Bernard Williams, e ripresa da Avishai Margalit: le emozioni bianche sono quelle che possiamo provare anche in perfetta solitudine – pensiamo alla paura della morte, un sentimento che molti provano negli attacchi di panico. Le emozioni rosse, invece, sono quelle che proviamo quando siamo fatti oggetto non già del nostro sguardo, ma di quello altrui. Riproponendo un confronto tra Hobbes e Vico, che lo stesso Zanetti ammette essere locus communis, si nota come nel primo prevalgano emozioni di carattere ‘bianco’, e come siano invece di carattere ‘rosso’ in Vico. Certo, anche per il Napoletano la prima emozione, quella provata dai bestioni davanti al tuono, è la paura, ma in questo caso il senso è diverso: essi interpretano quell’evento come il segno della presenza di qualcuno, come di un occhio che li scruta. Cominciano ad accoppiarsi di nascosto, e dalla religione, quale timor Dei, si genera la vergogna (il pudore). ‹‹Non è affatto lo stesso tipo di paura – scrive Zanetti – fondamentalmente soggettiva e individuale, che si presta fra l’altro anche ad essere deliberatamente utilizzata da individui astuti; si tratta, piuttosto, di una paura condivisa che spinge gli individui a organizzarsi in un ordine sociale›› (p. 69).
Le prime norme vichiane sono istitutive, cioè innanzi tutto creano qualcosa. Poi, ovviamente, comportano anche delle norme regolative, cioè norme che comandano o proibiscono di fare qualcosa. In questo senso, notiamo come, giusta l’osservazione di Zanetti, in Vico si riscontri una prima forma d’identificazione tra Stato e società: la preminenza data all’istituzione, e non già alla regolazione, impone, a rigor di logica, di prendere atto che non vi è un ente al di là della societas che lo genera, e questa viene facendosi mano a mano che fa quello. Infatti, in seguito Zanetti ricorda che ‹‹le regole regolative possono essere rivolte a individui; le regole costitutive possono essere rivolte unicamente a gruppi›› (p. 83).
Risultato di questa preminenza di emozioni rosse è il ruolo fondamentale che in Vico assume il matrimonio: un tema molto dibattuto nei paesi occidentali, non solo per le diversità che si riscontrano tra diverse culture (pensiamo alla poligamia), ma anche dentro una stessa cultura (pensiamo alla relazione omosessuale). Un tema, inoltre, che, a differenza di quello della famiglia, è stato poco trattato, e a cui solo Vico ha dato la giusta importanza (‹‹il filosofo del matrimonio›› come leggiamo a p. 87). Solo quando i plebei avranno diritto alle nozze solenni, il processo di umanizzazione si potrà dire compiuto. Solo allora il passaggio dalla forma aristocratica a quella democratica sarà pressoché compiuto, oltre che irreversibile. Ai plebei non era permesso sposarsi, perché essi non potevano farlo: era ritenuto contro natura. Ma essi si ribellarono per ottenere uguaglianza.
Questa credenza, per cui sarebbe stato contro natura il matrimonio che non fosse ‹‹more ferarum››, non è un inganno: è una credenza collettiva, creduta fino ad un certo punto anche dai plebei. È in un linguaggio di miti che si esprime la verità eroica, che deve aver avuto qualcosa di vero: ‹‹si tratta di una verità costituita, fatta attraverso l’azione di un insieme di credenze collettive che si cristallizzano appunto in determinate realtà istituzionali›› (p. 95). Il risultato è chiaro: ‹‹la lotta per una maggiore inclusività dell’istituzione matrimonio è aspra e mette anzi differenti concezioni in conflitto: il suo esito è però infine un ingentilimento dei costumi, che – come si è accennato – nella Scienza Nuova comprende anche per esempio, quella che Vico chiama tenerezza del sangue. Si fanno cioè ora politicamente disponibili, insieme a una più inclusiva forma di eguaglianza, nuovi sentimenti e nuove emozioni›› (pp.114-5).
L’originalità dell’impostazione e l’impellenza dei problemi affrontati fanno del Vico eversivo di Zanetti un’opera particolare nell’orizzonte scientifico italiano degli studi vichiani. Speculativo nei fini, filologico nell’impianto. Peraltro, è un libro scritto con molta onestà intellettuale, perché talune obiezioni l’autore se le muove da solo; senza essere mai categorico nel tracciare confini tra concetti, facendo notare le diverse sfaccettature. Infine, quando deve giudicare il mondo attuale, mostra una serenità di giudizio che non è facile riscontrare in certi dibattiti.
Ma un libro ha sempre una propria storia, che l’autore non riesce mai completamente ad esaurire. Non fa eccezione il lavoro di Zanetti. Infatti, non pare provato che il risultato storico debba essere questo ingentilimento, che condurrà all’accettazione politica di matrimoni ‘diversi’.
Tra l’altro, possiamo leggere che il matrimonio è ‹‹anche occasione per un energico ricorso all’argomento del consensus omnium, dove l’ omnium dell’universalità non si riferisce a individui singolarmente considerati, latori magari di una ragione critica e libertina, ma a nazioni›› (p. 88). Questo perché la razionalità ‹‹si rivolge primariamente all’individuo, e funziona sulla deliberata connessione mezzo-scopo›› (p. 109). C’è un di più nella sapienza che ci viene dalla storia, fatta di prudenza e di buon senso comune, che il singolo non riesce ad esperire. La tesi, secondo cui verum factum conventuntur, non garantisce la conoscenza del singolo individuo, ma quello dell’umanità intera, cioè di milioni di uomini nel loro rapporto reciproco, sia esso orizzontale tra contemporanei, sia verticale tra l’umanità in epoche diverse. Questo filo, creato dall’emozione rossa della vergogna, viene spezzato da un’altra emozione simile: l’orgoglio. Cioè la tracotanza umana di esperire il reale tramite il raziocino scientifico (nell’accezione che questa parola ebbe tra Sei e Settecento).
Detto questo, è necessario osservare che è stata una scelta poco felice quella di accomunare matrimonio poligamo e omosessuale, perché pongono problemi diversi e s’inseriscono in modo diverso nella storia, passata e attuale. Si potrebbe obiettare che la concessione di “nozze solenni” a connubi differenti da quello fondato su un uomo e una donna sia un cedimento all’orgoglio, che conduce alle ‹‹particolari proprie utilità di ciascuno››. Ci chiediamo, infatti: in virtù di cosa le pur legittime scelte di singoli formano una ‹‹razionalità sociale›› (p. 66), vincolante nella Storia?
In questo caso, purtroppo, Zanetti cade nell’errore di esaurire il processo storico prima ancora che si sia realizzato. In altri termini, non c’è una ragione per sostenere che le cose, che attualmente stanno andando in un verso, si evolveranno conseguentemente. Non c’è ragione, ancora, per sostenere che il futuro è della Scienza, o del Proletariato, o della Religione, solo perché, allo stato attuale, le cose stanno andando in una di queste direzioni.
La Storia futura, insomma, non è “vera”, per il semplice ed importante motivo che non è stata ancora realizzata.

Indice:
Presentazione
  1. Eguaglianza in Vico
  2. Il bianco e il rosso
  3. Il sovversivismo dell’immanenza
Bibliografia
Indice dei nomi

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