"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

3 maggio 2011

Ducismo italiota

Di buono (e mi scuso preventivamente con le menti belle che leggono) la guerra in Libia lascerà soltanto la chiarezza delle parole. Non c’è più ‘anima pia’ che non usi lo schietto vocabolo che richiama l’altra faccia della storia umana. Sono finiti nel dimenticatoio parole come ‘ingerenza umanitaria’, ‘forza di interdizione’, o la più poetica ‘operazione di polizia internazionale’.
La Costituzione, appunto. Fino a ieri, ci raccontavano che la colpa del suo deterioramento fosse da imputare soltanto al Cavaliere nero di Arcore, sempre pronto a tentare un putsch come se Palazzo Chigi fosse una birreria di Monaco. Oggi non so quanti possano sostenere che il male che nuoce gravemente alla salute della democrazia italiana sia raccolto in un pacchetto di voti, per quanto consistente, assiso su un tacco di dieci centimetri. Il linguaggio della politica si è fatto molto più complesso di quanto i benpensanti siano disposti a concedere, e l’analisi che se ne può fare lascia poco spazio a diagnosi alternative: siamo un popolo malato di ducismo.
Qualche settimana fa Asor Rosa ha lanciato la sua brillante idea: ristabilire la democrazia, cancellandola. Come principio logico fa qualche grinza, ma l’illustre accademico è notoriamente un nostalgico dell’Armata Baffuta e il Manifesto delle primavere passate, tanto da volerne suscitare una in casa nostra. Stupì, invece, non solo il plauso della piccola intellighenzia, quella che sui social network lamenta la mancanza di libertà e l’incombente terrore ad opera di un barzellettiere, ma addirittura che un ragionamento in sé alquanto bislacco, venisse appoggiato da un pezzo a firma di Gianni Vattimo, uno dal ‘pensiero debole’ ma – apparentemente – dalla mano forte, apparso sul giornale che, più degli altri, ha fatto della legalità la propria bandiera. Che copulare a pagamento e ritoccare bilanci sia più pericoloso che un centinaio di carri armati per le vie di Roma? Che un generale sia meno inquietante di una signorina dai modi civettuoli?
È evidente ormai: per un ‘Paese civile’ sono più disdicevoli le sfilate dei perizoma che quelle dei galloni, più le indiscrezioni sessuali che i ragionamenti golpisti. Tra qualche decennio, quando di questa partita speriamo sarà finito pure il tempo di recupero, salterà all’occhio attento della blatta da emeroteca lo scempio che si è fatto della Costituzione, senza peraltro che i suoi detrattori fossero coscienti del loro ruolo.
Non è nelle mie corde il ‘costituzionalismo’ quale ideologia politica. Non penso che si possa giustificare, in uno Stato liberale, la sacralità di qualche testo. Ma non mi è estraneo il rispetto delle regole, e quello della logica dei comportamenti (meglio conosciuta come ‘coerenza’), soprattutto quando sono sobrio e non appesantito da giorni di crapule festaiole. Abbiamo preso una brutta china, e ce ne pentiremo. La prudenza, che è la virtù essenziale della politica, avrebbe dovuto imporci di soppesare ogni passo. Ci siamo messi a correre, invece. Non è difficile pensare che, primo o poi, sul lastricato della storia lasceremo spalmato mezzo ginocchio.
Basti pensare al dibattito sul ‘legittimo impedimento’, contro il quale è pronto un referendum – l’unico su cui non ci sono contromosse da approntare. Per alcuni, non c’è motivo per cui il presidente del Consiglio debba avere più garanzie di un qualsiasi ministro; non è scritto da nessuna parte (semmai si può dedurre il contrario) che un soggetto, nell’impossibilità di poter coniugare governo della nazione e disbrigo delle proprie pratiche penali, non possa essere sostituito; dimessosi un premier, insomma, se ne fa un altro, senza peraltro passare dalle urne. Questo prevede la Costituzione. Questo è vero. È vero da quel primo gennaio del 1948. Ma allora perché scannarsi in una guerra fratricida, per trovare l’uomo giusto da contrapporre al Cavaliere? Perché salire su pullman, andare in bicicletta, lanciare slogan dal vago sapore americano, se tutti i giochi vanno iniziati e finiti in Parlamento? Perché ad un volto giustapporne un altro? Ad una squadra un’altra? Ad una ‘pianificazione’ (alias ‘programma’) una diversa?
Giusto o sbagliato (come penso) che sia, in questi vent’anni abbiamo confuso la chiarezza con lo spettacolo. Non sono moralista: distinguo, soltanto, la commedia dell’umano dalla farsa del potere. Tuttavia, da persona che su un palco c’è salita, seppur ai tempi dell’oratorio, so bene che il miglior modo di non arrossire è restarsene dietro le quinte. Altrimenti, prima o poi capita di calarsi troppo nella parte da sembrare ridicoli nei momenti di pausa.
E se almeno dessimo l’impressione di volerci fermare qui, potremmo ancora (ma in parte) rimediare. È che pare che il passo, pian piano, si stia facendo sempre più lungo della gamba. Pensiamo all’art. 11 della Costituzione. È fuor di dubbio che permetta operazioni militari. Ma è altrettanto indubbio che ogni testo, se espunto dal contesto in cui è stato prodotto, può dire ogni cosa. Davvero i bombardamenti, per quanto intelligentissimi, rientravano nelle intenzioni dei padri costituenti? E fornire armi ed addestramento militare ad una parte della popolazione contrapposta ad un’altra, sono quelle ‘operazioni di polizia internazionale’ che potrebbero essere accettate dal succitato articolo? Insomma: le risoluzioni dell’Onu a quale diritto possono divenire la chiave ermeneutica del dettato costituzionale italiano?
Non c’è testo, in una democrazia, che non possa venire riscritto. C’è solo una regola da seguire: discuterlo. C’è, infatti, chi preferisce la lingua al pugno.

Pubblicato il 3 maggio 2011 su TheFrontPage

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