"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

18 maggio 2011

Per Salvatore Niffoi i sogni non muoiono mai

di Antonio G. Pesce- Non muoiono i sogni. Semmai, si smette di sognare. Si smette di saper trarre dal proprio tesoro cose nuove e cose antiche (cfr. Mt 13,52). E quando si smette di sognare; quando l’uomo non sa più trarre nulla dal proprio mondo interiore, vuol dire che il deserto della barbarie è di molto avanzato.
Questo ultimo romanzo di Salvatore Niffoi, Il lago dei sogni (Adelphi, 2011), è opera tipicamente vichiana, perché è storia di storia. Ma anche inno alla letteratura fatto innalzato dalla letteratura stessa. La barbarie qui, e non l’umano, nasce, come in Vico, da un tuono, da uno sconvolgimento quasi divino. Un grande boato, un terremoto che ricaccia gli uomini di Melagravida nelle caverne di un’incoscienza spersonalizzata e spersonalizzante, dove l’incubo vero è la realtà monca in cui si vive. Monca, perché priva di quella spiritualità – il mondo interiore appunto – che è la parte più consistente del reale.
Perché, infatti, la realtà è tale solo se manca il sogno? Perché la terra dovrebbe avere ancora un senso, se mancassero sogni e progetti, speranze e illusioni, desideri e rimpianti – se mancasse lo spirito? La redenzione sta tutta lì, in quel lago Loconio, sotto il cui specchio d’acqua vive una civiltà dimenticata (obliata appunto dalla ‘tristura’ della terra, ma che, invero, ne rappresenta l’intimità). La dimenticanza della storia collettiva, che è anche dimenticanza di sé, dell’amore giovanile e delle speranze del futuro.
Itria Panedda Nilis le aveva perse entrambe. Un giorno, d’un tratto, quando il marito morì (o si diede per morto). Così cominciò a non vivere, quei giorni che il marito non avrebbe vissuto, sperimentando della vita la morte, ultimo capitolo certo, ma non l’unico. Eppure, la redenzione era alle porte. Lì, davanti a quello specchio. Lì dove si ri-comincia a sognare. E quando il sogno afferra Itria, comincia ad diffondersi per Melagravida, infettando innanzi tutto Martine Pajolu, col quale la giovane lo condividerà fino a quando i ‘bestioni’ non lo ‘sveglieranno’, appendendolo per il collo.
No, non si può più sognare. Il dio della Montagna – che non è il Dio di Itria né di padre Bruno, ma del mitologismo che incatena la gente del paesino – tornerebbe a tuonare e a falciare la vita. meglio vivere da morti che morire da vivi.
Eppure ormai gli eventi stanno precipitando. Il sogno è in Itria. Non la lascerà più. Ne uscirà dal ventre nove mesi dopo, portando il nome del padre, Martine. Ma ormai s’è sparso ovunque. È radice profonda nell’esistenza di Itria, che, abbandonato Melagravida, si trasferisce nelle sue vigne, vivendo di lavoro, certo, ma soprattutto di letture. Sogni. Sogni innanzi tutto degli altri, anche quando l’intero paese dice che senza letteratura si può vivere (o sopravvivere? e che vita è quella, insensata, della nascita e della morte a mo’ di bestia?). Ma verrà il tempo anche di ‘partorire’ i propri, ogni nove mesi come dei figli. Come quel figlio che con lei cresce, e che come lei si nutre di sogni. Egli figlio di un sogno che ha generato vita, innanzi tutto nell’esistenza di chi lo ha generato.
Il sogno, ormai, non giace più nascosto nel tempo. È tornato. Passa all’attacco. Il male indietreggia. Dopo un sogno Seppedda Palidda prende la decisione di redimersi, raccontando tutto il male commesso da don Severino Nodosu, il prete che non sa sognare e non vuole che si sogni. Ma il sogno colpisce, non distrugge. Risveglia. Chiusosi in convento, egli tornerà a sognare – forse sognerà per la prima volta – e morirà santo, sepolto accanto a Santu Sarvadore. A don Severino si rivolgerà Itria, ormai intrappolata nelle cripta, e il bacio sulla fronte della salma e la successiva salvezza suggellano la rappacificazione dei due nel Sogno. Forse il prete penitente, negli ultimi suoi giorni, poté leggere l’incunabolo del 1499, la cui ricerca aveva condotto Itria lassù in alto?
Ormai è tutto deciso. Per Itria è vicino il momento dell’incontro. Quello col marito, Tzesiru Baffia? Quello con gli extra-terrestri. Con gli ‘alieni’, con coloro che si sono resi stranieri a se stessi, perdendo la memoria, obliando il loro mondo interiore. Sono extra-umani, gente di un altro pianeta (o di un’altra parte del pianeta, o di un’altra epoca o, ancora, l’altra parte di ciascuno di noi – di noi uomini del XXI secolo), a cui il la razionalità scientista ha ‘disincantato’ il mondo: ‹‹Le nostre macchine – dicono – avevano segnalato la presenza di due persone che ai libri e alla scrittura hanno consacrato la vita intera. Senza volerne trarre alcun profitto. Esclusivamente per il loro piacere. Questo è un piacere che noi abbiamo perso con il progresso. Memorie artificiali sempre più sofisticate, monitor che hanno sostituito la carta. Automatizzate l’alimentazione e l’espulsione delle feci. Tutto in fretta, senza neanche capire dove si andava, felici di navigare con cavi, fibre ottiche, onde elettromagnetiche. I libri distrutti e condensati nelle potentissima memoria elettronica della Grande Mente. Distrutti anche giornali, fumetti e riviste. Distrutto quello che aveva a che fare con carta e inchiostro. Ma la Grande Mente un giorno si ribellò e andò in tilt. LO fece con cattiveria quasi umana, perché cancellò tutti i dati e poi si suicidò esplodendo. E così noi siamo rimasti orfani, senza storie, senza libri né parole. Ci eravamo abituati a cliccare e cercare, senza lavorare di fantasia, senza ricordare››.
Più d’una profezia andina, dovrebbe preoccuparci l’appiattimento del cuore alle imposizioni del raziocinio.
 

Salvatore Niffoi, Il lago dei sogni, Adelphi, 2011, pp. 155, € 18,00.














Pubblicato il 14 maggio 2011 su CataniaPolitica

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