"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

25 febbraio 2011

ITALIA NOSTRA





di Antonio G. Pesce -
Dopo un’ampia discussione, che ha coinvolto l’intero Paese, il 17 marzo sarà tinto di rosso – come la passione, che non c’è – sul calendario. Che sia ormai un giorno di risposo è fuor di dubbio, quantunque perfino per una scelta come questa, che sarebbe stata scontata in altri tempi, non si sono lesinati improperi, divisioni, accuse. Quel che è ancora in dubbio è se sarà un giorno di festa. Perché una festa non è semplicemente un giorno di riposo. Men che meno potrebbe esserlo uno come questo.

Stando alle cronache, si è rischiato perfino che il genetliaco dell’unità cadesse di un giovedì qualunque. Cioè che la nascita di quello Stato che ‘sfama’ – è davvero il caso di dirlo – le famiglie di migliaia di cittadini, i quali dovrebbe ringrazialo di pagare così tanto le loro vane chiacchiere, passasse del tutto inosservata. Che la data che ha dato ad alcuni, anche un secolo e mezzo dopo, la possibilità di rendere fruttuosa la loro inutilità, fosse un giorno meno importante di quello in cui il politicante italico passa all’incasso (delle varie prebende). Tante sembrerebbero le ragioni di questo rinato interesse per la storia patria e della relativa avversione per la costituzione dello Stato unitario, ma ce n’è una che possa dirsi davvero tale, e non mera scusante di altre (per esempio, di derive ideologiche)?

La querelle è iniziata con la più retorica delle argomentazioni. C’era da vendere fumo, e in Italia abbiamo i maggiori esperti. E cosa strappa lacrime, qui da noi, oltre la mamma? Il lavoro. Così, si è tirata in ballo la faccenda della produttività. Che è – sia ben chiaro – una faccenda seria. Soprattutto per chi non sa come venirne a capo ogni fine mese. Ogni fine commessa. Ogni fine progetto, contratto, obiettivo, e via (precariato) dicendo. Ma nell’anno in cui qualche altra festività è stata assorbita dalla casualità, forse si poteva lavorare di più fantasia. E poi, retorica per retorica, perché non ricordare che il nostro Parlamento si è mostrato poco zelante ultimamente (ammesso che lo sia mai stato)? Perché non ricordarne le lunghe pause?

Le aziende, la Marcegaglia lo hanno preteso. C’è da lavorare? Siamo d’accordo. Ma se l’unica idea che viene in mente alla classe dirigente di uno dei paesi più industrializzati del mondo (e noi lo siamo ancora, facciamocene una ragione), per aumentarne la produttività, è limare fino all’osso le ore di riposo, allora siamo messi davvero male. In Oriente i grandi colcos possono contare su carne sempre fresca da immettere a ciclo continuo nel loro tritacarne. Non sono battibili. Almeno fino a quando l’esistenza umana non si ribellerà alle proprie catene – e già se ne vedono i risultati ad un tiro di schioppo dai nostri lidi. Per intanto, dobbiamo pensare a qualcosa di meno scontato come strategia.

Oltre questa, sono stati mossi rilievi di carattere più “istituzionale”. Mancherebbe la copertura finanziaria delle spese, e dunque il decreto legge sarebbe anticostituzionale. A dirlo Calderoli, ma è presumibile sia l’opinione anche di Umberto Bossi. Sulla questione economica è meglio non entrare. È bene sperare che non sia così; che almeno questi quattro spiccioli ci siano, e che qualcuno al governo sappia fare i conti. Per quanto riguarda la costituzionalità, diciamocelo francamente: il pulpito non è dei migliori. Invitare alla divisione del Paese, o parlare di cinquantamila uomini, armati di doppietta, non è proprio il modo più opportuno per approcciarsi al testo fondante della Repubblica.

Forse è possibile un’altra lettura. Dopo vent’anni di impegno politico sul panorama nazionale, la Lega si sta mostrando per quel che è stata sin dalla sua fondazione: un partito squisitamente italiano. (Avevamo sperato diversamente, ma tant’è). Con tutti i difetti, certo, ma anche i pregi degli italiani. Tra i pregi che noi abbiamo, c’è la bonarietà. Parliamo parliamo, ma alla fine siamo dolci come lo zucchero. Perché qui, in Italia, tutti teniamo famiglia. E nessuno ha mai pensato di mandare in trincea i propri figli, si trattasse pure di salvare la valli del Po dal terronico invasore.

Poi, ci sono i difetti. E qui entra in gioco la spocchia mista a noncuranza, il minimalismo che scivola verso il nichilismo, l’antiretorica che abbatte ogni bastione che non sia il proprio. La de-sacralizzazione di alcune parole del nostro vocabolario civile è iniziata prima dell’avvento della Lega, di Berlusconi, di Drive In, e di altre amenità citate da pubblicani e farisei per crearsi l’alibi. È presumibile che continuerà ancora per molto. Ci scandalizziamo del destino riservato alla parola “patria”, alla “nazione”, al “Risorgimento”? E della “cultura”? del “sacrificio”? della “legalità”? Da noi ci si fa vanto di non aver letto niente, negli ultimi decenni, che non sia la targa della propria auto, perché chi legge “poi diventa complicato”, e si confonde la superficialità e l’ignoranza con la semplicità. Diventa lo scemo del villaggio chi si laurea, “perché tanto laurearsi non serve a niente”, e per fesso chi paga tutte le tasse, perché “lo Stato non può chiedermi questo… e quest’altro… “, e così via.

Se il nostro è davvero declino, allora non è comparso dal nulla nel 1994, e non scomparirà nel nulla il 6 aprile o giù di lì. Questo è bene metterlo in conto. Tuttavia, l’Italia ha il suo posto dove ha sempre mostrato serietà: la storia. E questo è strano, a pensarci bene, perché la storia è la traccia indelebile dell’azione politica. Forse, però, non troppo, non appena facciamo la dovuta distinzione tra la politica vera, che è l’interagire di uomini (perfino nella lotta di classe, perfino nelle guerre di religione), e le comparsate mediatiche (le poetiche liturgie di un tempo come le prosaiche apparizioni catodiche di oggi). Nella vita (quella che conta) almeno fino a non molti anni addietro, gli italiani sapevamo farci valere. E non è difficile conoscere ancora uomini che hanno sgobbato per tutta la loro esistenza – sacrifici su sacrifici, sfruttamento su sfruttamento – pur di garantire ai propri figli la possibilità di studiare, e di affrancarsi dal sole della campagna o dalla fornace della fabbrica.

Nella storia ci si incontra in persone vere, ormai senza interessi da difendere, senza vergogne da celare. Ed ecco perché il dibattito storico sull’identità nazionale è assai più serio che le battute dei grandi pensatori assisi sui loro scanni parlamentari. Ed ecco perché, ancora, non è difficile trovare il tarlo della colpa. La storia è fatta da uomini: vogliamo davvero pensare che, perché qualcosa fatta da loro abbia un minino di dignità, debba essere esente da ogni errore? La lotta contro il nazismo non risparmiò vittime innocenti – ne vogliamo parlare di Dresda? Tuttavia, i vincitori possono scriversi le cronologie che vogliono, ed essere più meschini della meschinità che hanno combattuto (l’olocausto nucleare giapponese davvero è un semplice atto di guerra, per quanto grave?). La storia non sono i semplici fatti (che non esistono), ma la loro valutazione. In generale ed esclusa ogni altra considerazione strategica, meglio Dresda della vittoria sull’Imbianchino?

Le deficienze risorgimentali parlano della debolezza umana nel perseguire un obiettivo, non della qualità di ciò che si perseguiva. Lo spirito di Dante, di Petrarca, di Alfieri come di Foscolo, di Leopardi e di Manzoni non è da meno delle imprese di Cavour o di Garibaldi – anzi. E i mille che sbarcarono a Marsala o quelli che a Milano si sollevarono contro lo straniero, non meritano meno riconoscimenti di quelli che rimasero nelle valli del Nord o nelle campagne del Sud a pascolare le greggi. Perché in ogni evento umano troveremo chi non tace, e crede e spera, e chi non sa che partito prendere (o non vuol prenderne).

La storia non si fa a tavolino, pianificandola. La si fa vivendo. E chi più interagisce con l’altro, più diventa motore degli eventi. La vita – degli uomini nella loro persona come degli Stati nelle loro istituzioni – non è tutta quanta dev’essere sin dall’inizio. E chi nasce tondo può pur morire quadrato. La storia che stiamo vivendo – la storia che ci ha visto uniti sul Carso e sul Monte Grappa, contro la mafia e il terrorismo, nelle miniere di Marcinelle o nelle fabbriche e nelle campagne d’Italia; la storia che ci ha visti impegnati nei laboratori come negli studi, per costruire un’Italia civile – questa storia non è diversa, né merita meno rispetto, di quella di centocinquant’anni fa. Siamo noi, sempre noi che ci facciamo popolo, partecipando alla costruzione di una nazione sempre più grande e ricca. Ricca d’umanità, grande in cultura.

L’Italia è una costruzione poetica, prima che frutto di guerre, fucili e apparati. Perché la mancanza di un’unità politico-istituzionale dovrebbe inficiare la valenza della stessa contiguità territoriale? Perché essere espressione geografica è meno importante che essere espressione politica? Quanti amori finiscono per la lontananza! E quante volte nella nostra vita concreta abbiamo potuto fraternizzare con chi ci era vicino e con l’esperienza della vita, con l’intreccio di speranze e di passioni, lo abbiamo sentito indissolubilmente legato alla nostra esistenza che non certi vincoli di parentado? Perché i veneti non debbano sentirsi uniti ai siciliani, al di là di dialetti e di ‘razze’, solo perché hanno creduto – sì creduto – in una poesia e in un’idea?

Perché, insomma, ci pensiamo – nell’individualità come nella collettività – determinati da un natura che ha perso il suo incanto, e ci lega a vincoli che non siamo più noi stessi?

Noi non siamo quelli di ieri o quelli di domani; non siamo quelli del 17 marzo 1861 o quelli di centocinquant’anni dopo. Così come ciascuno di noi non è il bambino di trentacinque anni fa, né l’anziano che sarà fra altrettanti. Noi siamo la coscienza continua di noi stessi. Lo siamo come persone e, proprio perché lo siamo come persone, lo siamo anche come popolo. E il popolo è quel gruppo di persone – non per razza, non per istituzione, ma per esperienza – che il tempo ha fatto conoscere tra loro, che ha accomunato l’evento del pianto, della gioia, del lutto, le speranze e i propositi comuni. Questa è la Patria: ciò che è sempre madre, che educa e non si limita a partorire e, ben che meno, soltanto a riconoscere negli atti comunali. Ogni italiano vero è il vero italiano delle fabbriche, dei campi, delle aule. Nato qui o altrove, di questo o quest’altro colore di pelle. Ma italiano perché educato alla storia e al destino di questo popolo. Continua apertura all’altro, ma perché continua identità. E viceversa.

Perché allora tanto rumore sui festeggiamenti del 17 marzo, quando ogni giorno dovremmo festeggiare, e forse andare più lontani con la mente – alle idee di Dante, al formarsi del volgare, all’identificazione dell’Italia come identità geografica? Perché sottese a queste polemiche c’è una narrazione – l’ultima grande narrazione, rimasta dogma anche tra i più sedicenti laici: è la narrazione dello Stato. L’identità di un popolo sarebbe data dalla nascita dello Stato moderno. E Stato non come comunità, ma Stato come apparato burocratico, con i suoi uffici, le sue leggi, la sua identità legale.

Il paradosso, a questo punto, è proprio di chi non vede Stato prima del 1861, o chi pensa alla propria identità fissa in un’epoca fuori dal tempo, fuori dalla storia. Nel primo caso non è nient’altro che uno statalista privo della coscienza di esserlo: dategli in mano un ente locale, e lo trasformerà in un grande casermone, né più e né meno di ciò che rimprovera di essere (a parole) allo Stato unitario. Nel secondo caso non si tratterebbe di un intollerante, ma di una macchietta. Buona per farci una carnevalata, e dileggiare incoscientemente le stesse vicende eroiche di cui ci si traveste.


Pubblicato il 25 febbraio 2011 su www.thefrontpage.it

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