"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

21 febbraio 2011

LA PERENNE ATTESA DI UN REDENTORE





di Antonio G. Pesce -
Forse per un pizzico di conformismo intellettuale, che crea tormentoni più delle marchette radiofoniche, nelle cose che contano noi italiani ci arriviamo tardi. Alla fine, qualcuno deve pur dir come stanno, e da qualche ventennio a questa parte tocca in sorte alla magistratura svelare il velo della pudicizia garantista, sotto il quale si nasconde la belva machiavellica del politico nostrano. Il gip Cristina Di Censo ha dato il via, suo malgrado, alla danza macabra dei commenti, tra i quali spiccano quelli leghisti. Questa volta fin troppo silenti e garbati perché non ci sia da temere. Un leghista, quando urla, fa politica. E non è pericolo. Se tace, pensa. E allora si fa astuto.

In un paio di giorni siamo passati dal commentare l’impudicizia delle lenzuola spiate, in un misto di femminismo d’epoca (più vecchio di tre quarti delle canzoni sanremesi messe assieme) e perbenismo pubblico-borghese, a prendere sul serio l’unico atto serio di tutta la faccenda: un atto giuridico.

La fiera si è svegliata? Sì. Sente l’odore del sangue elettorale, va a caccia del consenso, lo bracca, lo brama. E ha buttato via la maschera dell’etica pubblica e della decenza internazionale, per mostrarsi nelle sue fameliche sembianze. L’accoppiamento è il momento in cui i leoni rampanti tributano meno rispetto per il vecchio del branco. E qui c’è una povera donna in tricolore – l’unica rimasta vestita in più di quarant’anni di marcette per la dignità femminile fatte in minigonna, tacchi a spillo e perizoma – che continua ad avere il fascino della ricca ereditiera (quantunque di casato ormai decaduto). Non ci sarebbe da stupire, se pure il più mansueto dei felini berlusconiani, decidesse – per “il bene del Paese” ovviamente – di segnare il proprio territorio. Magari dopo aver calcolato bene costi e benefici della manovra di potere aggiuntivo.

Intanto, andremo avanti mangiando pane (finché ne avremo) e politologia. E soprattutto storia. La miopia di una nazione che arranca, è misurata dall’orizzonte storico lambito nella discussione pubblica: non si va oltre Tangentopoli. Da quando, cioè, sarebbe iniziato il conflitto tra poteri. Una narrazione, questa, che si inserisce nel filone della perennità: dalla rivoluzione al conflitto. E il conflitto è tipicamente italiano: Cesare e Pompeo, Augusto e Marcantonio, e via via fino a Coppi e Bartali, Del Piero e Totti, Berlusconi e la Boccassini. E che giustifica il malo uso che gli uomini fanno delle istituzioni che creano. I poteri – come li chiamano – non hanno braccia per agire, e le idee non camminano perché non hanno gambe. Tutto in prestito, tutto spudoratamente umano, con le sue altezze e le sue bieche meschinità. Orgoglio e pregiudizio portati alla ribalta dalla piccola rappresentazione teatrale di un’Italia piena di comparse, tra le quali spiccano quelle che già ci stanno e non vogliono scendere dal palco, e quelle che vogliono salirci. Ci si aspettava davvero un’interpretazione migliore, quando l’arte si è fatta mestiere?

Il conflitto tra politica e magistratura non è impossibile. È semplicemente anomalo. Può generarsi, perché entrambi condividono lo spazio pubblico, seppur in due momenti diversi: la libertà e la legge, l’entusiasmo e la prudenza. Ma il suo generarsi è lo svilimento (reciproco) dei ruoli. Ed è innegabile la volontà salvifica di stampo messianico che serpeggia da ambo le parti. Entrambe alla ricerca del proprio martirio per la conquista della palma di gloria.

In questi anni abbiamo assistito a magistrati che hanno esternato più di quanto avrebbero potuto esternare, e politici che sono scappati più volte di quanto fosse lecito aspettarsi. Qui nasce il conflitto di poteri: nelle braccia che si incrociano armate, nelle gambe che sgambettano le altre. Tutti membri – gambe e braccia – di uomini. Ai quali manca prudenza, perché mancano limiti. E da che il mondo si è messo a discutere del fatto della civile convivenza, l’unico limite del potere è stato sempre considerato la fonte.

Lo scontro tra politica e magistratura è il segno del livello di schizofrenia incipiente. Siamo un popolo malato che odia intestinamente la democrazia, perché non ha alcuna voglia di costruirsi la salvezza. Aspetta mondani redentori. E frattanto, si contorce ed urla contro se medesimo. I conflitti non sono scritti nella realtà, che semmai ha la sua armonia stampigliata perfino nel microcosmo. I conflitti sono generati dalle azioni degli uomini. E in Italia la gente troppo facilmente si appende al telefono, e con altrettanta facilità origlia.

Poi arriva la fantasia, e con un pizzico di rimpianto si vuol tornare bambini. E si gioca al telefono senza fili. A scapito di una nazione, la cui vita civile si basa ormai sull’interpretazione.


Pubblicato il 19 febbraio 2011 su www.thefrontpage.it

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