"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

9 febbraio 2011

Un “Manifesto” per Agata



di Antonio G. Pesce- Quando parliamo di sant’Agata, dimentichiamo sempre l’aspetto laico – ce n’è uno infatti – del culto agatino. La questione della laicità, un tema non molto in auge fino a qualche decennio fa, induce a dimenticare, o a connotare in modo negativo, un aspetto importante della figura della santa catanese: il fatto cioè che, oltre che “testimone” della fede in Cristo, Agata, come Lucia per Siracusa, sia stata cittadina di Catania.

Se, allora, ci si tiene tanto alla figura della bella e giovane martire cristiana, tanto che è difficile ricordare sindaci o uomini politici che, nonostante la personale indegnità morale (ché non lo scopriamo oggi quanto indegno possa essere un uomo dalle idee e dai valori che propone) o il proprio (e pubblico) credo laicistico, abbiano poi disertato i festeggiamenti; se tanto, dicevamo, ci si tiene ad Agata, allora le si potrebbe offrire anche qualche ragione “civile”, perché il suo nome non venga disonorato da quello della sua città.

Del resto, la dimensione sociale del Cristianesimo è evidente. Non nel senso che Stato e Chiesa siano o debbano essere la stessa cosa, ma che la religione di Cristo ha una sua dimensione politica, anche solamente simbolica. La giovane Agata si mostrò credente ( fu “martire”), appartenente ad una ecclesia (letteralmente “assemblea”), e le sue azioni da credente avevano ricadute sociali (cioè interessavano l’altro – l’ultimo catanese dell’epoca o l’imperatore di Roma).

Dunque, alla concittadina Agata si poteva offrire qualcosa più di fiori, cerei, salsicciate e bonbon. Altro. Magari una città più viva di cui andare più fiera.

Certo, per la comunità dei credenti il più alto dono è l’Eucaristia. Ma chi continua a pensare che il cattolicesimo sia una faccenda seria (che ne affronti il messaggio da credente o no), e non una schitarrata elettronica la domenica, sa che Gesù di Nazareth – con quel suo corpo e col quel suo sangue – insegnava nelle piazze, per le vie, sui monti a folle che stavano ad ascoltarlo. Chiese, infine, di cercarlo nel prossimo: in chi non aveva da mangiare, in chi era nudo, in chi soffriva. Non è questa una dimensione irrimediabilmente pubblica? E quando a messa ci si percuote il petto, non lo si fa forse, oltre che per accusarsi di aver peccato ‹‹in pensieri, parole, opere››, anche in ‹‹omissione››? E cosa è l’omissione, se non vedere il male e non opporvi il bene? Non è forse vero, infine, che non ci si salva da soli?

Le classi dirigenti (quale che ne sia il credo dei membri) stanno lasciando dormire questa città. E consegnano fiori – devozione per alcuni, partecipazione civica per altri – proprio quando sono tornati di moda i manifestati, gli appelli, l’impegno della firma e dei banchetti (oggi gazebo). Ecco, allora, cosa ci voleva: un manifesto per la città di Agata – per una città che si sta arroccando sempre più nell’individualismo di chi la vive. Niente sarebbe stato più stupefacente. Il vero giro di trionfo, il cui fercolo morale sarebbe stato tirato dai cordoni di chi ancora spera, e a cui sarebbe stato dato qualche altro motivo per continuare a farlo.

Eppure, nulla di questo è stato fatto. Nessun impegno. Nessun obiettivo comunitario. Gli ultimi bastioni che, quantunque traballanti, paiono restare in piedi – hanno coscienza della loro importanza? sono pronti ad assumersi l’onore della responsabilità? – non hanno ancora mostrato un sia pur timido sussulto di vitalità. Politica, cultura e fede non possono più proseguire in ordine sparso. Certo, permangano (ovviamente, e guai se non così fosse) le distinzioni di ruolo, ma come non vedere che, senza un’azione corale, Catania, da qui a qualche lustro, avrà perso definitivamente (almeno secondo la misura temporale di un vita umana) quel ruolo di grande metropoli meridionale che le compete?

Dalla rinascita civile al fervore culturale, dalla prosperità economica all’ordine sociale, bisogna segnalare priorità, suddividersi compiti, impegnarsi in esempi e donarsi in sacrifici: è necessario che una sola voce, pur nella differenza dei toni, si propaghi dagli scanni, dalle cattedre, dagli altari. E spiace che non ci siano abbastanza officine e botteghe per chiedere loro altrettanto.

È necessario un accordo, un programma comune – un ‹‹manifesto›› appunto – tra gli stati generali della città, perché essa smetta di essere qualcosa di più di un semplice dormitorio con qualche buon servizio a portata di mano. Catania deve aspirare a ben altro!

È necessario tornare a credere, sperare, progettare. È necessario, se vogliamo non disperdere quel patrimonio, lascito dei padri, che fa ancora essere fieri di questa ‹‹patria››. Che – non va dimenticato – è quella di Agata, una giovane che, alla Catania che vedeva con gli occhi della fede, sacrificò la vita.


Pubblicato il 3 febbraio 2011 su www.cataniapolitica.it

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