"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

8 giugno 2011

Fermate i centri commerciali

Fermate i centri commerciali 
di Antonio G. Pesce - Ne stanno aprendo un altro. Di centro commerciale. Se non vado errato, siamo quasi a otto (centri commerciali o quasi). Ora, non è difficile fare del bieco moralismo. C’è un noto cantante, che negli anni Sessanta cantava contro il cemento della città. Frattanto ha fatto i soldi, cementato una fetta di campagna, portato in tribunale i contadini che non gli vendevano i loro lotti, e telefonato in diretta nazionale per pontificare contro i mali d’Italia e del mondo intero.
Dunque, bando alle canzonette sanremesi dove si dice che abbatteranno un teatro per farci un discount. Certo, uno guarda via Etnea e via Umberto e vede commercianti che serrano le saracinesche per non riaprirle più. I più attempati ricorderanno via Garibaldi o via Manzoni a metà degli anni ’80. E al limite si può dire che il commercio si è solo spostato. D’accordo, si è solo spostato. Passi. Tanto, ormai ovunque si compra cinese, perché sono proprio le case produttrici a chiudere battenti. Ma non è solo questo il problema. E non è neppure quello dell’origine dei capitali, o della fine che fanno i guadagni.
Il problema è semplice: il commercio fa girare il denaro come il lavoro, e noi abbiamo bisogno di produrre entrambi. Non basta più il giuoco della tre carte. Qui ormai si campa con la pensione dei nonni, sperando che, prima o poi, papà ci arrivi pure, dando un po’ d’aria alle asfittiche tasche familiari. Nessuno che abbia al di sotto dei quarant’anni spera in un lavoro. Si sta tornando a forme patriarcali di famiglia, perché le nuove generazioni possono sostentarsi soltanto di promesse pre-elettorali. Un centro commerciale è come un grosso pacco da scartare sotto l’alberello del politicume: lo apri, e ci trovi trecento, quattrocento voti. Ci trovi il posto per le clientele, che si azzuffano tra loro. Ci trovi la consulenza per Tizio e Caio, che si son fatti un mazzo così alle scorse elezioni e li devi ringraziare. Ci trovi, soprattutto, licenze da firmare, autorizzazioni da concedere, tavoli da imbandire di belle e fruttuose discussioni.
Fumo. Soprattutto tanto fumo e pochissimo arrosto. Ovviamente, il problema non è del centro commerciale. Non è neppure di chi ci lavora (almeno finché se lo tengono). Il problema è di chi non sa creare nient’altro che fumo. E perfino il fumo non basta più per tutti.


Pubblicato il 31 maggio 2011 su CataniaPolitica

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