"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

10 gennaio 2011

FATEVI BAMBINI !




di Antonio G. Pesce- L’altro giorno ho fatto il presepe. Come ogni anno da quando – ne avevo 10 – la cosa passò in eredità a me. Sono stato sempre erede di patrimoni che nessuno mi ha mai lasciato. E che altri non hanno mai avuto voglia di contestarmi.

Posso capire che ad alcuni di voi non interessi sapere come io trascorra la giornata, o come mi avvicini alle festività ormai imminenti, e soprattutto al santo Natale. Però dopo, sotto la doccia – perché uno che è stonato come una campana, anche sotto la doccia preferisce non commettere spropositi canori – mi sono venuti in mente alcuni pensieri di cui vorrei farvi partecipi. Sapete com’è: io sono filosofo – di quelli scarsi sì, ma filosofo. E i filosofi hanno tante parole da dire, ma poche da donare. Io queste ve le dono con tutto il cuore. Perché forse, passata ormai da un pezzo la trentina, posso permettermi di non essere egoista. E abbastanza sincero da non apparire melenso.

Ho aperto la scatola dove tengo i pastorelli, il bue, l’asinello e tutta la Sacra Famiglia. C’era un’usanza da rispettare, ed io ero in ritardo di un paio di giorni (ad andar bene, perché a casa mia il Natale lo si cominciava ad aspettare da Santa Lucia, poi dall’Immacolata). È che, però, l’età ti rende imprudente non tanto nei confronti della vita che vivi o di quella che vivrai, ma di quella che hai vissuto. Ti assale il passato. Quante feste con quante persone! Eppure, si torna indietro ad alcuni momenti. Quando si nasce in un senso che né la psicologia né la biologia, né tanto le griglie dell’anagrafe riescono a comprendere.

Alla fine di quel pozzo di ricordi mi sono rimasti da sistemare due pastorelli. Uno avrà non meno di sessant’anni. Era del nonno Giuseppe. Ricordo una sola volta un presepe a casa sua. Poi, cominciammo a farlo dai miei. Il nonno aveva ricavato delle scarne casette da pezzi di legno; sopra, come tetto, a mo’ di tegole aveva messo un po’ di cartone increspato; le aveva colorate con la tempera che vendeva nella bottega. Il Natale iniziava così. Ci si radunava per la Vigilia attorno al focolare, non si aspettava neppure la mezzanotte. Si mangiavano le scacciate, un bicchiere di vinello nostrano, un panettone e una bottiglia di spumante. Si tirava un po’ di più per la notte di S. Silvestro. Nonno soleva allo scoccare del nuovo anno andare in terrazzo e sparare un paio di colpi con la sua doppietta.

L’altro pastorello è di plastica. Una pastorella, per l’esattezza: rubiconda in viso, il grembiule, nella mano sinistra porta un mazzo di rose e sotto l’ascella destra un cagnolino. Lo comprammo con mia madre una sera d’Avvento di circa 25 anni fa. Agata, mia sorella ed artista della famiglia, riteneva il presepe troppo scarno. Mamma mi portò nel negoziato vicino casa, e sul bancone c’erano una decina di questi personaggi. Scelse la donna con cagnolino e rose. Lo pagò 500 lire. Io non fui molto contento della scelta, ma ogni anno gli ho trovato un posticino nel mio presepe. Ricordo che Agata faceva le montagne. E che io, la sera verso le sette, mi mettevo davanti alla grotta suonando un campanellino e recitando qualche preghiera.

Ora mia madre invecchia, nonno Giuseppe non c’è più, e neppure il focolare con attorno noi nipoti. Però è lì che ritorno ogni anno. A quegli anni. Non ricordo molto di ciò che succedeva prima, e di ciò che è accaduto dopo ne ho potuto fare a meno. Ma di quegl’anni no. Quando ci si sforza di tornare indietro, e proprio non ci si riesce, allora è proprio in quel punto che affondano le nostre radici. Che, se profonde, non gelano mai. A quel bambino bisogna ritornare, per trovare un senso alla vita. E a quel bambino si tornerà, anche quando la pianta avrà fruttificato. Verranno gli anni che nuovi focolari saranno accesi, perché il dovere ci chiama ad essere tradizione viva per chi in noi vede (magari nostro malgrado) degli esempi. Ma è a quel focolare che noi siamo venuti a radicarci. Quel che noi saremo per altri, altri lo sono stati per noi.

‹‹Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso›› (Mc 10,15). Sotto la doccia mi son dato pure alla teologia. E forse sarò stato troppo ardito, ma mi piace pensare che, ancor più che l’Amore di un Crocifisso, possa portare pace la Tenerezza di un Bambino. Quella bellezza, coccolata dalla notte e svezzata dall’alba, in cui tutto si può sperare.

Questo l’augurio ad ogni lettore, questo quel che mi è accaduto qualche giorno fa – che accade un giorno ogni anno da diciassette a questa parte: farsi bambini, per cominciare a non temere di sperare.


Pubblicato il 23 dicembre 2010 su www.cataniapolitica.it

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