"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

30 maggio 2010

SILVIO E LA REALTA'

di Antonio G. Pesce- Fa una certa impressione vederlo così dimesso. Il velo della vecchiaia è calato anche sul suo volto. Gli occhi chini sul foglio, tono pacato e lento, legge la fine del sogno che aveva venduto tanto bene per vent’anni, mentre la verità già si mostra spavalda al suo fianco: numeri incontestabili e un compagno di ventura, che ha avuto abbastanza lucidità per non credere alle barzellette raccontate, tante volte, in eurodiffusione. Ora, almeno lui, il fido compagno di strada, che la strada, alla fine, s’è deciso a dividerla dall’amico birbone, almeno lui può guardare in faccia i giornalisti, un poco più sereni perché se dovranno starsene muti per legge, quantomeno non dovranno più essere ottimisti per decreto.

L’ottimismo, dice il poeta, è il profumo della vita. E d’accordo, non si può sempre veder nero. Ma esiste anche un ‹‹giusto pessimismo›› – ci ricorda Romano Guardini – ‹‹senza del quale non si fa nulla di grande. Esso è la forza amara che rende il cuore coraggioso e lo spirito operoso capace di opere durevoli››. Persuadersi che, col mare grosso, non s’imbarchi acqua, neppure un poco, o che i flutti non sballotteranno, anche un poco, la navicella, non è da ottimisti ma perlomeno da sprovveduti.

Un anno intero a convincere che la realtà era ben altra, come se non la conoscessimo quella realtà fatta di debiti pregressi e vecchiume istituito, di immobilismo sociale e sperequazioni ignominiose. E poi, tutto finisce nel modo più misero, col presidente del consiglio ridotto a passacarte del ministro dell’economia. Abbiamo vissuto al di là delle nostre possibilità? E chi, fino a ieri, invitava a spenderle, perché altrimenti nulla sarebbe ripartito? Chi, fino a ieri, si occupava di immunità parlamentare e, oggi, continua ad occuparsi di intercettazioni, legiferando come nessun governo liberale di una democrazia liberale si sognerebbe di fare, durante la più grossa tempesta finanziaria degli ultimi settant’anni?

Ecco ora svegliarsi la (tonta) addormentata nel bel mezzo del bosco dell’impunità fiscale, ormai selva oscura dell’immoralità italica, fatta proliferare nel piccolo per alimentare il grosso. E quali le idee per togliere la nave dalle secche in cui è caduta? Quale bussola per uscire dall’angosciante macchia? Far pagare chi già paga e tagliare a chi è già stato tagliato. Tutto qui. Ed è arrivato perfino il momento della CGIL che, a forza di ripetere sempre il proprio no al governo, alla fine ci ha pure azzeccato.

E pioverà ancora, e ancora, alla maniera italica, sul bagnato. Fra poco, buona parte delle università italiane potranno chiudere i battenti, o imporre rette da capogiro per il ceto medio italiano. Fra poco, la generazione dei padri morirà sul posto di lavoro e quella dei figli senza posto di lavoro: bloccate le finestre pensionistiche, bloccate le sostituzioni del personale mancante (turn over). Dalla scuola all’università, alla pubblica amministrazione. Senza istruzione, senza un lavoro.

Ne usciremo anche questa volta. Quando si tratta di far sacrifici, gli italiani non si tirano indietro. Più difficile che s’impari la lezione, e non si ripeta lo sbaglio di ieri: che la politica non vada seguita attentamente e che, in fin dei conti, si possa demandare ad altri la responsabilità civile di pensare il futuro. Il vizio tutto italiano di sparare giudizi, prendere dure posizioni nel momento della battaglia elettorale tra condomini, parenti e compagni di lavoro, per poi occuparsi del totocalcio, del superenalotto e delle ultime scimunitaggini siliconate, alla lunga non ha pagato.

Impossibile, infine, che un briciolo di pudore sia rimasto in faccia a chi prometteva una rivoluzione liberale, che è divenuta, venti anni dopo, la solita ossessione del potere. Porterebbe alle dimissioni e alla presa di coscienza di un fallimento. Ma lì dove non può la morale, può forse il politicume: del resto, la storia patria ci insegna che la ciurma non abbandona mai la nave. Abbandona, più spesso, il capitano.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 28 maggio 2010.

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