"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

27 maggio 2010

NINO MILAZZO, UN ITALIANO DI SICILIA

di Antonio G. Pesce - Si presenta con la flemma tipica che attribuiamo agli inglesi. Ma si tratta di garbo, gentilezza riservata, e della moderazione che i suoi ottant’anni – sessanta dei quali passati in redazione – conferiscono ad un giornalista dalla ‹‹schiena dritta››. Non solo anatomicamente.

Nino Milazzo a Motta S. Anastasia per presentare il suo Un italiano di Sicilia (Bonanno Editore, 2009), invitato dall’assessore alla cultura Vito Caruso. Salvatore Fallica, al quale il maestro non risparmia l’imbarazzo di un pubblico encomio – sembra quasi un’investitura, il lascito di una cospicua eredità da tramandare – parla del libro come del ‹‹racconto di un pezzo di storia d’Italia vista dalle redazioni dei giornali››. I giornali in cui ha lavorato Milazzo. La storia d’Italia che Milazzo ha analizzato, organizzato, redatto, mandata in stampa. E che noi abbiamo letto, dalle colonne del Corriere, di cui è stato vice direttore, a quelle dell’Indipendente, della Sicilia. L’ordito della memoria collettiva cucito coll’ago di quella personale.

Dalla bella e delicata voce della lettrice, la giovane Margherita Aiello, scorrono anni di vita intima e collettiva, vicende umane e politiche. Milazzo, invitato da Fallica, racconta, commenta, senza mai cedere alla personale lusinga. Non si risparmia neppure l’accenno al suo adolescenziale credo fascista, quando ricorda gli anni precedenti la seconda guerra mondiale, trascorsi in Veneto. Lì dove sentì –la prima volta – il disagio di essere siciliano. ‹‹Altre prove mi avrebbe insegnato più avanti che la sicilianità richiede pedaggi esistenziali molto alti››. Li avrebbe pagati anche nella redazione dell’Indipendente, il giornale di stile anglosassone, che diventerà tutt’altro con l’arrivo di Vittorio Feltri. Milazzo ricorda l’amicizia col giornalista bergamasco, nata ai tempi del Corriere.

Poi, gli anni della P2, il giornale di via Solferino investito dallo scandalo, Feltri che va via, e le strade si dividono. Quando si ricongiungeranno, sarà la fine di un’amicizia. Milazzo non digerisce i toni antimeridionalisti che l’Indipendente fa suoi, diventando quasi il bollettino della Lega Nord di quegli anni. Lo mettono in quarantena. Si ritrova a leggere, il mattino, articoli che, da liberale, non avrebbe mai mandato in stampa. Finché dice basta dopo averne letto uno di un ‹‹disinvolto razzismo›› contro quella terra natale, la Sicilia, non accettata mai nei suoi vizi, ma neppure rinnegata nella sua bellezza, nella sua storia, nell’ancestrale voglia di riscatto.

Eppure, nella memoria di Milazzo, non c’è solo la delusione dell’Indipendente, o i giorni tristi della crisi del Corriere, seguita allo scandalo della P2 che ne vide coinvolto il direttore di allora, Di Bella, ‹‹un galantuomo che si fece tirare dentro››. Ci sono gli incontri con uomini e donne straordinari, rispettati nei loro difetti, apprezzati nelle loro grandi virtù. Il coriaceo Montanelli che, durante una passeggiata, per poco non investito da una bici, affronta di petto il pirata, senza badare al richiamo di Milazzo, anzi restandone quasi offeso: ‹‹Credi che non saprei tenergli testa?›› si sente rispondere il nostro. L’estrosa – a dir poco – Oriana fallaci, che lo investe di improperi per una correzione, tranne poi, l’indomani, abbracciarlo per avergli fatto notare l’errore. Ma, soprattutto, l’amico di sempre, Enzo Biagi. Mentre ne parla, il garbato signore del giornalismo italiano si commuove. Lo fa a modo suo, certo. Con l’eleganza di un cavaliere di altri tempi. Ma la voce trema, in alcuni passi. Le braccia, prima raccolte sul petto, ora si slegano e si aprono.

‹‹Mi ha insegnato molto›› dice volgendosi ai presenti. E poi riprende: ‹‹Gli sono stato vicino nei momenti difficili. Quando le morì la figlia Anna. Quando venne colpito dall’ “editto bulgaro”. La nostra amicizia si era cimentata negli anni del Corriere. Facevamo lunghe passeggiate per i corridoi del giornale. La cosa fu notata: Biagi non era molto gradito. Quando mi chiesero di allontanarmi da lui, reagii con violenza. Nessuno osò rifarmi quell’invito››.

Nel libro Milazzo si lascia andare un poco di più. Ma mentre parla è indulgente con chi ha piegato la schiena (e voleva che la piegasse pure lui).‹‹Posso sempre essere io a sbagliarmi›› afferma, perché il vecchio laico non vuol far di sé dogma, né delle sue scelte. Ma c’è soprattutto buon gusto, quando evita di parlare dei suoi rapporti con Ciancio e della sua esperienza a La Sicilia e Telecolor.

Un’ultima lezione di stile, ad una platea affascinata dalla classe di questo solitario del giornalismo italiano. Perché Milazzo, nonostante tutto, questo è stato. Come un vaso di ferro, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di terracotta.


(FOTO PIERPAOLO GIUFFRIDA)

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