"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

18 febbraio 2012

Le muse non ci parlano più


La nostra civiltà sta male. Lo dice la qualità dei libri che pubblichiamo. Eterni bambini in un mondo che non siamo riusciti a far nostro, cerchiamo di perpetuare il nostro dramma piuttosto che trovarne il senso. Ecco perché pubblichiamo la nostra insufficienza emotiva, contribuendo allo sperpero delle risorse cartacee del pianeta. Deo gratias, la carte si può riciclare facilmente. Ma il tempo passato a credere – illusione perversa – che quel sentiero avrebbe condotto dentro il cuore del problema del vivere, è andato definitivamente perduto.
Smettiamo di scrivere il dramma umano con categorie che non ci appartengono più. Possiamo ancora pensare, e questo è già tanto – è tanto che non ci si debba fermare al mero calcolo, che sopravviva un barlume di quella luce del cuore che può ancora (ma per quanto ancora?) soppesare il valore di un’esistenza. Non possiamo più (ma fino a quando?) oltrepassare le categorie caduche del tempo. Il romanzo non era una burla, una favoletta da bambini: aveva qualcosa di divino, perché in quelle pagine a l’uomo è data la possibilità di farsi un mondo per esorcizzare paure e ‘provare’ esistenze. Noi ne abbiamo fatto lo specchio della nostra vanità. E la poesia? Niente, tra le opere dell’uomo, è più simile a quella di Dio che la poesia. Un verso è un cuore che palpita per la vita dell’intera umanità. È diventato, invece, il vassoio della nostra confusione.
Dobbiamo reagire e dire basta. Ci sono uomini capaci di parlare con Dio, ed altri a cui è data, a stento, la possibilità di interpretarne gli scritti. Basta, non possiamo fare nulla. Non possiamo credere che un neurone decida di noi, e che un esperimento ci dica chi siamo e che senso abbia tutto questo che viviamo, e poi, la sera, piuttosto che fare all’amore, darci alla masturbazione metaforica in versi. Non possiamo vivere la passività del moderno avariato, e poi tentare un approccio all’atavica genuinità dell’eterno. Dobbiamo lasciare questo compito agli eletti di Dio. E questi eletti rimangano nascosti, ci celino la loro saggezza. Di tanto in tanto, in stanze colme d’amicizia, pronuncino una nota, ma per il resto dell’anno vivano come se ogni segnale del Cielo si sia spento.
Dobbiamo affrontare l’angoscia della morte, senza la spicciola speranza della gloria terrena: la terra non può più accogliere alcuna arte, se non per mero svago da salotto. O Dio o nulla. Facciamoci interrogare da questa angoscia, e forse un giorno le Muse torneranno a dirci qualcosa.

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