"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

12 maggio 2008

FRAMMENTO II. Destino e potenzialità

Il destino non esiste. Ce lo siamo inventati noi. Avevamo qualche debito con le vicende dell’umana fortuna, e il nostro spirito non era così forte da assumersi il peso del proprio futuro. Ci siamo inventati così l’ennesimo capro espiatorio su cui far pesare la nostra incapacità di vivere o quella di sopportare la delusione del fallimento. Perché vivere è difficile, e lo è perché non possiamo mai mentire a noi stessi. In fondo alle nostre viscere, c’è qualcosa che si muove e non ha pace: questo tribunale, riflesso di quello divino, nel quale la Verità, la Giustizia e la Grazia si scontrano col verosimile, l’accadimento e il peccato. Ed è una battaglia casa per casa, senza tregua, e senza via d’uscita che non la vittoria finale o la sconfitta perenne.


Non possiamo celarci a noi stessi. Al gran ballo del mondo possiamo presentarci bardati come pirati, che entrano nell’altrui vita e la saccheggiano impunemente, lasciando il vuoto più che il dolore lì dove si sono mossi i passi dell’iniquità; possiamo indossare le vesti del principe azzurro, l’uomo che non ha macchia perché si guarda bene, ogni volta che esce di casa, dal mostrarle in pubblico; possiamo, infine, scegliere bene la cravatta – e già sarebbe una gran conquista del buongusto – e trovare la giacca che più si addice all’ennesima occasione che abbiamo di venderci bene, al prezzo più alto, contando sull’incuria altrui per i propri affari, perché in un mercato non si ha voglia di spendere bene, ma di comprare tanto, e ogni cosa è un pezzo, ed ogni pezzo ha un prezzo; perché l’unico fine del pezzo è la vendita. Quando si è in stato di necessità, e non si vuole uscire dal mercato, quello che è importante è avere un prezzo, non già avere quello giusto, ma uno qualsiasi. Essere sulla piazza dà valore.

Ma non possiamo mentire a noi stessi. Perché non esiste nel tribunale della coscienza il silenzio artificiale dei nostri luoghi di riposo, dove passiamo in un’atona pace dei ritmi quei pochi giorni che riusciamo a non farci sottrarre da quella nostra superbia, che ci spinge a credere che l’operaio durerà infinitamente di più dell’opera. Le cose passano meno velocemente perché hanno brillato meno intensamente dell’uomo. Non è vero che esiste il silenzio, almeno non nel senso assoluto: esiste, invece, in modo assoluto la parola. E ne esiste una, che è come l’eco primordiale, il rimbombo della messa in moto dell’universo: qualcuno ha innescato la bomba. Lo stesso che ci ha gridato dentro la vita. Smetteremo di udire quando smetteremo di vivere. E non è detto che smetteremo anche di percepire suoni. Ma una vita che percepisce solamente suoni è carne irrorata di ossigeno. Non rimanderà più l’eco dell’infinito. È morta.

Se fossimo davvero coraggiosi come dicono le nostre belle foto riboccanti di muscoli e stampigliate sui rotocalchi da spiaggia; se davvero a tanta presunta forza corrispondesse altrettanta vera virilità, affronteremmo la verità come in un’arena, giocandoci la partita con la realtà fino all’ultimo spasimo. E invece ci siamo rinchiusi nel più ottuso di tutti i sistemi, e alla sinfonia della Giustizia preferiamo i monotoni effetti acustici della parzialità: lì dove non ha luogo il dibattimento, c’è solo spazio per l’adulazione. Essere assolti da sé medesimi è davvero quanto di più facile riesca all’essere umano. Ma è ancora un essere umano colui che si assolse, o solo l’ombra biologica di uno spirito ormai in putrefazione?

Un’anima viva è un’anima che non ha requie, perché non qui, non ora ci tocca acquietarci. Non ha, infatti, che frammenti di vita, e la vita dell’anima è la verità. Solo quando il mosaico è totalmente composto, tanto da non essere più neppure la perfetta giustapposizioni di una miriade di pezzi, bensì una forma che ha impresso se stessa nello spazio circostante e nella mente di chi la vede, allora l’occhio coglie il tutto e di questo si sazia completamente, mentre va qui e va lì per trovare ancora quello che manca alla sua soddisfazione, quando il tutto è solo frutto di un’intuizione che si chiama speranza. Così, quando un uomo vuole mentire a se stesso, la sua anima si ribella al veleno che vuole farle bere, come la vita lotta contro la morte, e fugge la notte al primo chiarore dell’alba. Un raggio, pur debole, squarcia un velo enorme di tenebre.

Un uomo vivo non può mentirsi. Deve essere comunque sopraggiunto un qualche tipo di morte, perché la menzogna sia perfettamente assimilata dall’anima. Altrimenti, è solo un’altra voce della realtà, anzi la più forte, che urla giorno e notte e non lascia assopire il malcapitato, che credeva di farsene beffa. L’alba è una verità partorita dopo una notte di menzogna. La sofferenza coltiva la nostra parte migliore: peccato che poi sia l’indifferenza, il più delle volte, a raccoglierne il frutto. Fosse il coraggio – di ciò abbisogniamo davanti al reale stato delle cose, non già di sempre maggiori gradi dell’intelletto, ma di immense virtù etiche, perché ciò che è gode di un’evidenza, che il nulla non riesce a conquistare neppure facendosi partorire dalle menti più strampalate – allora un mondo nuovo, più autentico, ci si parerebbe innanzi, e perfino la sofferenza, che nell’immediato davanti alla vita assume le sembianze della falsità, ci apparirebbe come una verità appena accennata.

La cattiveria non è da tutti, ma la pusillanimità ci si avvicina. Si può non mentire, e tuttavia non avere il coraggio di dire la verità, anzi. La verità è l’unico lusso del quale, chi non vi ha rinunciato ancora del tutto, quanto meno ne fa dono agli altri con molta generosità. Mai che si trovasse in tali casi un eccesso di egoismo. La verità è la cauterizzazione del peccato originale. La verità è grazia che sana. Ma è una salute per la quale si prega poco. Anche perché in pochi credono di deficitarne.

Davanti al fallimento, all’errore, alla viltà, l’uomo indossa la maschera del predestinato, che si confà a ricchi e poveri, credenti e non, intellettuali d’alto rango e mezzo tacche della penna. Non stupisce tanto che vi sia un destino, ma che ne sia possibile la lettura prima della sua stesura: ciò distingue una sincera credenza, anche se errata, da una ridicola pantomima. Ed è in questi casi, che pure l’uomo più miscredente tira fuori, dopo averla apostrofata con la bile del demonio, la santa mano di Dio. Che non si vede perché avrebbe dovuto darci tanta libertà da poterci permettere non solo di dare la morte alle nostre anime con la menzogna, ma addirittura di bestemmiare il suo santo nome, per poi tirare i fili di questo teatrino che mettiamo su con tanto zelo. Dovremmo essere più umile: non è necessario scomodare un regista come Dio per dirigere un filmetto come quello che l’umanità gira da non si sa quanti secoli. Basta guardare i canovacci che stendiamo ogni giorno con le nostre illusioni, le nostre frenesie, il dolo, la falsità, la vanagloria, la lussuria… il resto lo recitiamo a soggetto. Il pensiero della complessità non riesce a cogliere questa fitta trama, e di tanto in tanto, quando conviene, si ritorna alla vecchia e vituperata metafisica, e si tira dalle cianfrusaglie, e a sproposito, il Padreterno. Che può anche essere un padre un po’ troppo ansioso per la sorte dei suoi figli, anche di quelli tanto cretini da scambiare per ingerenza divina, la correzione che porta frutto, e il consiglio assordante che farà traboccare copiosi beni avvenire. Ma non è certamente un burattinaio. Un uomo intelligente non è sempre un uomo del tutto avveduto, giacché ciò che per Dio è, per l’uomo è solo possibile. I bimbi tendono sempre a svincolarsi dalla mano dei padri, e gli adolescenti gli si ribellano con tanto vigore quanta è la stima che nutrono per loro. Ma viene un momento, quando si è abbastanza più alti del caos degli eventi nel quale si è vissuto, che l’ardore dell’adolescente tramuta nella riflessione del giovane, dell’uomo maturo, che non vede più i fili e le cuciture, ma la parte iniziale di un bel arazzo. Allora Dio pare non usi più – non abbia mai usato la sua santa mano per incatenarci lontano dal telaio, ma per farlo andare comunque avanti quando eravamo troppo stanchi del lavoro, troppo delusi per i risultati parziali, poco fiduciosi per quello finale.

Non è necessario far capire il senso delle cose ad un imbecille perché si salvi: un anziano padre domenicano, tra un pezzo di formaggio e un tozzo di pane, sciorinò la sua teoria sui sacramenti e la salvezza come faceva scivolare il vino novello nel bicchiere: “sapete a cosa servono i sacramenti?” chiedeva intercalando parole e sorsi, e quando gli si rispondeva esattamente, e cioè che rappresentano la via ordinaria alla salvezza, egli aggiungeva tra il serio e il faceto – ma un domenicano è più pericoloso nel secondo caso, il francescano nel primo:”E Infatti ne esistono otto! Già otto, perché l’ottavo Dio ha pensato bene di non farcelo conoscere, sapendo di cosa sia capace la nostra boria. Ma esiste, credetemi, esiste davvero: è l’ignoranza”. I domenicani sbagliano qualche volta in meno di Dio, perché troppi parsimoniosi della verità: l’unico ordine della Chiesa capace, con parole e sofismi, di declassare i suoi sacerdoti da padri a frati, e spacciare tutto questo per una conquista dello Spirito. Dio, invece, qualche errore se lo permette per eccesso d’amore, e perfino l’idiota, che preferirebbe alla manna dal cielo uno sconto al botteghino della balera, finisce per avere anch’egli l’opportunità di essere messo a parte del vero.

Se il destino esiste, però, non è stato creato da Dio: non esiste in Lui niente che ha da venire. È tutto lì, in un attimo, anzi l’attimo stesso è troppo grande, un’infinità che accoglie più di quanto l’intera storia umana potrà mai produrre. No: tutto è il fulmineo balenare del tutto stesso in Dio. Tutto si è compiuto, in quanto dipanarsi logico, nella mente di Dio, prima che il prima e il dopo fossero. Pensati in Dio, abbiamo amato, creduto, pensato, agito, e pure scelto già in Lui, e dopo nella storia. Ma è un prima, questo, e un dopo impregnato non già del carezzevole odore di incenso del sacro, bensì dell’agre lezzo di sudore dell’umano. Dio ha pensato noi – ci ha creati così – ha pensato la libertà, l’amore e le leggi. Il resto è tutta farina del nostro sacco. Che possiamo macinare bene o lasciare marcire in magazzini colmi di disinteresse; possiamo disperdere al vento, o impastare il pane della vita.

Quello che chiamiamo destino nient’altro è che la realizzazione piena di ciò che siamo. Il passaggio dalla potenza del talento all’atto del guadagno. Noi non possiamo fuggire a noi stessi. Questo siamo, e non dovremmo vergognarci di ciò che siamo, ma di ciò che vogliamo essere. Dobbiamo essere pienamente ciò che siamo potenzialmente. Ogni altro desiderio, ogni altra aspirazione che non sia questa – essere ciò che abbiamo in destino di essere – è uno scadere verso la dannazione. Che non brucia chi sa dove in un tempo sempre più lontano di quanto non lo sia poi davvero, ma che ci affligge e ci tormenta qui ed ora. Dio vuole solo aiutarci a trovare la strada. Il cammino conosce il nostro affanno e la brama nostra dell’arrivo.

È un’occasione – sorprendente, come la felicità; inaspettata, come la morte – ciò di cui abbiamo bisogno per cominciare davvero ad esistere. Un’occasione di fuga dall’indifferenziato, un momento in cui viene formato il nocciolo duro di ciò che sarà in futuro il nostro vissuto. Il destino è questa logica del vivere che si dipana nel tempo, partendo dal talento che, custodito in noi, finisce per rendere a chi il dieci, a chi il cinquanta, a chi il cento per cento. È il grano che, caduto a terra e morto, produce molto frutto. Il destino è il presentimento di stare camminando su una strada quando si guarda innanzi, ed è la certezza di stare cammino su quella giusta quando si guarda indietro. Ed è il coraggio di affrontare questo compito, la forza per sopportare il tragitto, che fanno di un uomo un uomo virile. Virilità è stare ben saldi sul ventre della terra, mentre perfino il deserto è scosso da lancinanti sussulti, e non già penetrare la notte avvolgendosi ogni volta di pelli e fragranze diverse.

La mano di Dio non scrive. La mano di Dio non dirige. La mano di Dio non plasma.

Dio si siede al pianoforte, e aspetta. Tuttalpiù, ci dà il la. Da quel momento in poi, comincia tutto. Tragedia, dramma, commedia o farsa. Dio siede in platea e guarda. Ci incoraggia. Ci applaude. E se le cose vanno proprio male non ci fischia mai. Mai chiede il rimborso del biglietto. Ma si abbia la decenza di non pretendere, pure, la piaggeria di una recensione accomodante…..

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Bellissimo pensiero,da un po' non ti leggevo.
forse hai ragione: il destino non esiste e Dio non ha la facies del burattinaio. Ma l'interrogativo di come l'uomo possa riconoscere qual è la strada che davvero lo realizza permane, comunque.
Ciao,
Anna Lisa..

Antonio G. Pesce ha detto...

Cara Anna Lisa,
sono contento di "sentirti". Spero tutto bene.
Questo frammento era, in principio, pensato come primo capitolo di qualcosa di più grande. venuto meno il progetto, ho pensato di postarlo senza aggiungere altro. Dovrei rivedere il testo, perché ho notato alcune sviste. Ma per ora non ho tempo.
Sai la mia email: aspetto tue nuove.

Antonio.