"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

5 novembre 2012

Quando D'Alema perse il Baffo. E il partito.

Un articolo del giugno 2001. 
Titolo del novembre 2012. 



di Antonio Giovanni Pesce - Qualche tempo fa, Massimo D’Alema, in una intervista divenuta libro, aveva di che parlare sulla normalità del nostro paese, senza mai immaginare che, da lì a qualche anno, poco più o poco meno, quella stessa normalità avrebbe fagocitato le sue ambizioni di divenire, a tutti gli effetti, il leader indiscusso di uno schieramento composito. Che ne avesse la stoffa, di questo nessuno ne ha mai dubitato: un vaso di acciaio fine, ben temprato nella fornace delle ideologie e della guerra fredda, in viaggio verso una legittimazione politica ( che un  politico di razza, quale egli è, sa  di poter trovare solo nell’esercizio del potere), dopo il fallimento del comunismo italiano e non, in compagnia di vasi d’argilla, vuoti, che solo i ricettacoli della storia avrebbero potuto riempire.

La stoffa, D’Alema, l’ha sempre avuta, quello che gli è mancato per molto tempo sono state le opportunità di tagliarla, cucirla per benino, e mettersi quell’abito, che prima di lui tutto il popolo di sinistra si aspettava indossassero i vari e, in alcuni casi, improvvisati segretari del PCI: neanche Occhetto, che improvvisato politico non lo è mai stato, e che ha segnato la storia del nostro paese forse più e meglio di quel Togliatti, a cui, come ministro della giustizia nell’immediato dopoguerra, si deve la parola fine scritta ai processi di epurazione contro gli ultimi resti del passato regime fascista, neanche lui è riuscito a trovare aperta la porta del guardaroba, nel quale indossare la sua toga di primo ministro (post-comunista) di una nazione, l’Italia, membro NATO di importanza rilevante, ma primo paese in Occidente in fatto di preferenze elettorali del partito comunista nazionale. Non c’è riuscito, perché si aspettava che l’investitura gli cadesse come manna dal cielo. D’Alema ha aspettato, con calma ha tessuto la sua tela, al momento giusto ha fatto tacere la sua coscienza, quella stessa coscienza che gli aveva fatto dire, due anni prima, che mai, senza consenso popolare, sarebbe andato al governo, ed è riuscito a coalizzare  gli interessi di alcuni partiti, che ormai da anni annaspano nei mari mossi del nostro scenario politico.


Parrebbe un requiem per il leader massimo e, invece, lo è per la sinistra. Da Togliatti a D’Alema, il PCI ha lottato e sudato  per conquistarsi la propria legittimazione: si sono mossi sullo scacchiere nazionale ed internazionale con capacità davvero sorprendenti, ridondanti discorsi e ampollose dichiarazioni di intenti hanno coperto le reali intenzioni dell’apparato che conta, le tattiche più rivoluzionarie hanno placato la sete di rivoluzione delle folle, come le più fine strategie moderate sono state servite per placare quella di potere dei capoccia. Ma hanno sempre dovuto pagare lo scotto della loro viltà: se uno il coraggio non c’è l’ha non se lo può dare. E non si possono nemmeno creare dal nulla i soldi con i quali mantenere un così vasto apparato. Alta scuola di specializzazione politica, il PCI è stato uno stato nello stato: carriere, encomi e promozioni, declassamenti.
Uno stato potente, dunque, capace di mobilitare come nessun’altra associazione o movimento avrebbe potuto mai fare, e come mai riuscirà a fare la DC, che pure contava un più alto numero di elettori. Un gigante, ma coi piedi d’argilla: i dirigenti sapevano quanto limitata fosse la loro libertà d’azione, come scatti repentini in avanti e subitanee ritirate dovessero alternarsi per forza di cose. Troppo invischiato negli affari della nazione, tanto da guardare con ansietà a qualsiasi evento (il ’68 o il terrorismo) che potesse portare ad una alterazione degli equilibri già raggiunti, almeno in ambito regionale, eppure altrettanto coinvolto nei meccanismi dell’ideologia comunista, da non poter far altro che far sua la dottrina della doppia verità, muovendosi tra ambiguità e mistificazione: suoi non erano i danari con i quali alimentare un così ampio organismo, ma gli appartenevano in toto tutto quanto un partito, al di là del colore, dice e deve dire per reperire nuove energie, intellettuali, sociali, morali. E’ così, mentre più ampio si faceva il guado che divideva PCI e PCUS (il partito comunista sovietico, grande finanziatore occulto di tutti i partiti comunisti), altrettanto ampio sembrava quello fra la maggioranza della società italiana, di indole spiccatamente moderata, e i valori e le idee portate avanti dalla cultura comunista, dai suoi intellettuali e dai suoi mezzi di informazioni: il fattore P (il fattore propaganda) del PCI non ha caratterizzato solo un modo di relazionarsi col mondo giovanile, intellettuale, artistico del nostro paese: col tempo, è divenuto quasi una scuola di pensiero, la corrente letteraria più significativa dal dopoguerra agli anni ’90, l’unico domma a cui credere e l’unico modo di produrre dello spirito umano. Emblematici gli anni 70-80 e soprattutto quelli della segreteria Berlinguer: radicalizzazione dello scontro con l’URSS, certo, ma impennata della vulgata libertario-rivoluzionaria dell’ideologia comunista. Chi fuggiva dal PCI, paradossalmente, non lo faceva perché rimaneva deluso della sua politica, perché sentiva l’odore della borghesizzazione galoppante di scopi e pratiche: lo lasciavano perché lo credevano troppo legato, idealmente e politicamente, agli errori e, soprattutto, agli orrori del comunismo internazionale. Senza i suoi fuoriusciti, come avrebbe fatto il PCI a dirsi ancora rivoluzionario (quantomeno nel senso più ampio)? Come avrebbe coperto i suoi interessi sempre crescenti nello status quo, il compromesso storico con la DC? Il processo di normalizzazione era appena cominciato: meno ampia si fa la sfera d’azione di un partito, più pressante e meno circoscritta quella della sua ideologia. Senza quei burocrati della rivoluzione frustrati in casa e senza quei Goldstein, probabilmente oggi non avremmo così tanto figli di papà vestiti in stile    finto-povero, andare in giro con la falce e martello scarabocchiati sulla borsetta.
Tutto ormai era segnato: le lacrime di Occhetto, a quell’ultimo congresso, saranno state pure sentite, segneranno, però, la fine del partito comunista italiano, non quelle del comunismo: il comunismo, nella nostra penisola, era nato già morto. O, comunque, se di aborto non vogliamo parlare, parliamo piuttosto di infanticidio. Fatto sta, che il novantadue segna l’ascesi delle ambizioni del (neo)nato PDS, figlio di NN, per quanto riguarda i suoi dirigenti, i quali avevano, però, le idee ben chiare su chi avesse dovuto adottarlo: un prodotto ben confezionato, di fresca produzione, facilmente digeribile. Niente più richiami pericolosi alla (sola!) classe operaia, e con valori e principi morali facilmente appetibili a un’Italia ormai secolarizzata. Poi, però, qualcosa non va: seppur avvezzo alla grande e disomogenea organizzazione, quale era stato il PCI degli ultimi dieci anni, e soprattutto resistente alle forze centrifughe, il dirigentismo pidiessino non riesce a far nascere un fronte di sinistra comune e abbastanza coeso da affrontare la destra di Berlusconi: i fatti saranno pure fatti, ma le parole lasciano un segno: quarant’anni di distanza (per quanto apparente) sono molti, perché il figliuol prodigo ritorni a casa senza reclamare una sua dignità, seppur minima. Messe da parte le componenti moderate e centriste, le stesse forze appartenenti storicamente alla sinistra non dimostreranno   mansuetudine nell’accettare i diktat di Botteghe Oscure: in fin dei conti, anni e anni di peso politico non irrilevante nel sistema partitocratico, e perché morire poi soffocati sotto quello dei  cugini? 


Crolla il sogno di Occhetto, non quello della sinistra: Palazzo Chigi avrà forse decine di porte, ma una e soltanto una è quella per la quale entrare: quella principale. Scaricate le pallottole dell’ideologia, alla quale nessuno più crede, la sinistra usa quelle della magistratura. Il terzo potere dello stato, con i suoi tribunali e le sue toghe, le toglie davanti Berlusconi, ma quello che credono D’Alema e compagni, al di là delle dichiarazioni pubbliche, non è la realtà: la magistratura non è politicizzata, se con ciò si vuol dire che esegue un progetto politico altrui. Ne ha uno tutto suo, che se non ha come obiettivo squisitamente pubblico, mira quanto meno a dare un ruolo di spicco ad alcuni magistrati: sembrerebbe che qualcuno ci abbia guadagnato pure finanziamenti a tasso zero, ma questo non è il momento di parlarne. Quando, infine, D’Alema raggiunge la tanto agognata carica di presidente del consiglio, la situazione è , sotto alcuni aspetti, davvero particolare: gli eredi (se non, addirittura, i protagonisti) del comunismo italiano sono titolari, senza deleghe a personaggi e partiti moderati, del potere esecutivo; la coalizione di centro-sinistra, però, ha clamorosamente fallito: non si tratta, stavolta, di un rimpasto, e dunque della sconfitta di un governo, ma della bocciatura del candido della coalizione alle passate elezioni nazionali. Andare alle urne significherebbe andare in contro ad una tempesta, ma restare in barca, tentando di navigare, è del tutto improbabile.
Ci vuole un nocchiere capace, deciso, di grande statura: D’Alema lo è - questo anche i suoi avversari non possono fare a meno di ammetterlo- e se gli mancava la legittimità politica, dal momento che non egli era stato eletto, aveva però quella istituzionale, giacché era stato eletto presidente della Bicamerale, con la stessa approvazione dell’opposizione, e scoprendosi moderatore non senza qualche merito. Ora, è chiaro che divenire il coordinatore dei lavori, che avrebbero dovuto riscrivere le regole della cosa pubblica, non è da meno che divenirne un esecutore: D’Alema alla Bicamerale è il prodotto di una strategia lunga e accorta, che porterà la sinistra, nella sua componente storicamente meno moderata, a rappresentare il nostro paese nel mondo. E a un colloquio con quel Papa, che a ragione molti vedono come uno degli elementi, che contribuirono alla dissoluzione dell’impero sovietico.  
Sappiamo come si evolse quella faccenda. Forse, se le cose fossero andate diversamente…. La sinistra potrà pure vincere le prossime elezioni, vincere una battaglia, ma avrà comunque perso la guerra. Non con la destra. Con la sua stessa storia. Il processo di normalizzazione poteva  e, nelle aspettative di chi si adoperò in tal senso, doveva trovare sbocco nella prima elezione popolare di un  comunista al governo dell’Italia. Del resto, perché svendere un sogno, se non per una lontana, certo, ma quanto meno palpabile realtà? D’Alema poteva essere un ottimo candidato: il candidato di una sinistra, che sappia farsi apprezzare anche per il suo presente, e che voglia affrontare la sfida elettorale come protagonista, senza prestare idee e mezzi a facce, forse più pulite – storicamente e politicamente -, ma certo prive di carattere e spessore.
Un passo indietro per la sinistra, che ricominciava, nonostante le sue forze, un nuovo periodo di vassallaggio, senza sapere a cosa porterà. No, non siamo in un paese normale. La normalità, oggi campeggia su tutte le maggiori strade delle città, nei posti più frequentati: la normalità con la quale il centro-sinistra vuole conquistare il governo della nazione non ha più baffi imbarazzanti, ha un viso “politically correct”, un motorino ecologico. La normalità, oggi a sinistra ha il viso di Francesco Rutelli, ex sindaco di Roma, che con la sua aria bonaria tenta di farsi valere, ma deve parlar poco e agire meno. Le sue promesse, stampate su giganteschi cartelli, e affissi accanto a quelli del suo diretto concorrente, Berlusconi, ci fanno capire che no, non siamo un paese normale: non lo siamo perché da sei mesi siamo già in piena campagna elettorale, ma nessuno decide di rendere meno ridicolo questo sport nazionale, quello di chi rassicura di più, chiamando al più presto gli italiani al voto. E non lo siamo, perché dopo sei  mesi di sfottò contro le promesse berlusconiane, si fa altrettanto, con l'aggiunta della ridicola scopiazzatura.
Ed egli, D’Alema, che se avesse avuto un’investitura sancita dal voto, avrebbe avuto più autorità per imporsi; egli che, per stile e forza dialettica (che, comunque, non sono tutto, ma servono), non avrebbe avuto poi tanti problemi a tener testa al cavaliere, anzi; egli si ritrova a vedere altri avere quella fiducia, che lui stesso non ebbe. Oggi cosa è? Il presidente del suo partito, e sappiamo quanto siano importanti le presidenze per mandarvi in esilio gli sconfitti: persino quella della commissione europea ha avuto questo ruolo, altrimenti Prodi non si troverebbe lì. Figlio legittimo dell’apparato comunista, D’Alema ha visto sorgere il suo sole per la stessa logica che lo ha visto tramontare: il PCI non si è normalizzato che in una sola cosa: i meccanismi, che hanno da sempre mosso la dirigenza, stritolano proprio coloro che se ne servono, azionandoli. Ieri Occhetto. Oggi D’Alema. Quando i DS decideranno di riappropriarsi del potere decisionale e della responsabilità politica che, legittimamente, dovrebbero detenere all’interno del loro schieramento, la storia continuerà. E ci sarà così un futuro. E, allora, diremo che, domani, sarà il turno di Veltroni.

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