"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

8 novembre 2012

Il Grande Fratello Gay



 Articolo del giugno 2000.

di Antonio Giovanni Pesce - Il Grande Fratello Multimediatico si è mosso, la lavatrice delle intenzioni e dei pensieri già incomincia a fare la centrifuga alle altrui convinzioni: panni bianchi e panni scuri vengono lavati nella stessa acqua, con la stessa temperatura. Il fast-food della cultura dispensa cibi in nome dell’appetibile conformismo e del consumabile gusto: niente è più buono, tutto è buonista. Così, i salotti del televisore, dove ogni sera Trans. & Omo si avvicendano per esprimere i propositi delle loro manifestazioni, le buoni intenzioni di una convivenza pacifica e tollerante – verrebbe da dire che “bella scoperta”! – oggi, in questi giorni più che mai, si popolano di santoni della civiltà, di grassoni baffuti, che non hanno nient’altro da dire che esprimere melense teorie sull’emancipazione sessuale, sulla libertà dei costumi e altre cose del genere Sodoma e Gomorra.

I nostro governo dice, poi non-dice, finendo per dire-quasi-che. Di contro ai tentennamenti governativi, la tolleranza (vedi quanta!) degli ultrà della libertà sessuale si esprime nel convincimento che “queste puntate devono servire a far capire alla gente….”, “ la gente deve capire che…” : continuando di questo passo, sicuramente la gente sarà costretta a capire, non fosse altro che per non sentirsi ripetere la romanzina ogni giorno. Il lavaggio multimediatico è già iniziato, e passa per alcune fasi, come ogni lavaggio che si rispetti.
Innanzi tutto, un primo contatto, filtrare il messaggio subdolamente, far in modo che il messaggio stesso non venga recepito che come parte di un più ampio discorso. E’ facile, bisogna che quanto sia anormale assuma la vesta della normalità, e l’artificiosa normalità si crea nei laboratori della frequenza: sentirne parlare, e sentirne parlare “neutralmente”, come se ciò fosse di nessuna importanza,  impone nella mente dell’homo mediaticus un abbassamento del livello di guardia: come se si discutesse del più e del meno, come se ciò di cui si discuta non imponesse una presa di posizione. E’ il primo punto: quando ci si accorge dell’errore, è ormai troppo tardi, “ormai guarda che succede”, “non c’è più religione”, e via di questo passo. Il secondo, impone una rottura, nel senso che, ora, emerge il problema, il nucleo del contendere: non si parla più, si dice. Si dice, scriviamo, ma sappiamo bene di non sbagliare se scrivessimo con altrettanta convinzione “si persuade”, non si “convince”: le ragioni della convinzione possono essere pure in profondità, quelle della persuasione non esistono affatto. Eppure, a volte fanno breccia nei nostri più radicati valori. I passaggi sono sempre gli stessi: dall’eguaglianza  all’uguaglianza per giustificare la diversità e la teoria dello Stato come contenitore di ogni scelta etica, come garante di ogni volizione e azione umana. Uno Stato che non coercida i costumi degli individui. Come dire? Un colore che non deve tingere, una tromba che non deve suonare, un cavallo che non deve galoppare, e così via. A nulla serve ricordare che lo Stato, per essere tale, deve limitare, cioè non è un suo arbitrium ma esso stesso, in quanto limes fra le persone giuridiche, è arbitrium. Lo Stato non può, dicono, ma ciò che vuol dire? se non che esso non può, giacché solamente deve. Non può, deve per l’appunto.  E deve nei confronti non già delle persone, ma dei loro corpi civili. Fra essere famiglia e amare, checché ne dicano gli intellettualoidi italiani, passa una gran differenza. Siamo padroni di noi, non dei nostri rapporti sociali. Questo è quanto un individuo paghi per entrare nel consorzio umano. Possiamo, soltanto se lo vogliamo, se lo vogliamo tutti, nessuno escluso, rimettere in gioco l’idea di Stato, possiamo, se ce ne sentiamo capaci, di riformulare, o cambiare tout court, questa forma di convivenza che ogni civiltà umana, di ogni tempo e luogo, ha posto a fondamento, pur nelle molteplici sfumature, del proprio sviluppo: possiamo, cioè, cambiare il sistema o accettarne le regole. Per quanto queste possano essere rese libere o sobrie, rimane un limite che non può essere superato. La civiltà reprime, direbbe Freud, che pure in fatto di costumi (sessuali, soprattutto) ha non poche colpe (il complesso edipico come spiegazione di alcuni “racconti puerili”), e reprime qualsiasi costume che ne impedisca lo sviluppo o ne metta a repentaglio l’esistenza.. I costumi sessuali pure. Qualsivoglia costume sessuale, etero od omosessuale.
Il terzo stadio, nel quale l’intellighenzia italiana ci ha trascinati in questi giorni di discussione attorno al Gay Pride 2000, il raduno dell’orgoglio omosessuale che dovrebbe tenersi nella Roma Giubilare l’8 luglio, è quello della non-tolleranza (vedi intolleranza) della (presunta) intolleranza: chiunque non pensi che un raduno di gay e lesbiche, nella Roma che accoglie la cristianità in giubilo, sia opportuno, o che non pensi all’opportunità di concedere agli omosessuali la facoltà (del tutto sociale!!!) di riunirsi in famiglia e adottare bambini (perché ricorrere ai figli degli altri?), diventa, ipso facto, un mostro. Eppure, non si parla della vita di un omosessuale, né di quello che egli è, ma dei suoi costumi: le sue tendenze sono, appunto, sue, e nessuno glie le tocca, ma i costumi di ogni individuo no, la dogana si paga: non si possono accettare i diritti (e nei diritti, in uno stato civile come il nostro, questo lo si deve riconoscere, c’è anche quello di essere quello che si è, senza pena di morte o, peggio, carcere- sempre che non si entri in conflitto con la comunità), e non obbedire ai doveri.
Noi ci sentiamo di imporre questo limes, sentiamo il dovere di imporre il nostro arbitrium, il volere di una maggioranza su una minoranza: non possiamo legalizzare nessun tipo di rapporto che non sorregga il comune vivere, e che anzi miri a distruggerlo o a minarlo alle fondamenta. E sentiamo, altresì, la necessità di un comune vivere (non semplicemente lo Stato) la cui sensibilità non venga alterata da meri giochi di potere mediatico: la cattolicità, un miliardo di persone, guarda a Roma come centro spirituale di questa Storia, che noi viviamo. Ed è chiaro, che le due manifestazioni sono antitetiche per valori, contenuti e, soprattutto, intenzioni: ed è qui che la presunta voglia di tolleranza degli organizzatori del Pride fa, quanto meno, acqua. Il Giubileo è a Roma da settecento anni, ma come mai sia stato scelta propria la città eterna  nell’Anno Domini 2000 per un raduno del genere non ci è ben chiaro. Perché non ce lo si spieghi? Saremmo felici di saperlo. Dunque, bisogna decidere chi abbia più diritti e quali: un migliaio di persone di “scandalizzare” o un miliardo di non essere “scandalizzati”?
E’ una lotta politica, tutto diviene mera lotta politica, quando si vuole svuotare la storia di un suo significato: il diritto naturale o il sentimento religioso non gioverebbero a certe visioni libertine, e la partita politica, se la dobbiamo giocare, deve essere giocata senza barare. Non possiamo cambiare le regole solo perché ci penalizzino: una maggioranza governa, e può decidere se e quando una qualche cosa debba svolgersi. Questo il presidente del consiglio o il sindaco di Roma dovrebbero saperlo, anche perché nelle questioni che investono maggiormente la civiltà, non si può fare all’italiana, dove la minoranza, bastano quattro voltagabbana, riesce a tenere in scacco le sorti di una intera nazione. Nel caso specifico, di una intera civiltà.

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