"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

2 agosto 2010

I CAPPONI DEL PDL


di Antonio G. Pesce– Di tutte le pagine scritte dall’uomo sul libro della civiltà, quella più scontata è sempre l’epilogo, quel momento in cui la farsa davanti alla Storia si vuole tragedia per gli occhi dei contemporanei. Non ci rassegniamo a farla finita con serietà, ben che meno noi italiani, che riusciamo a tramutare in melodramma amoroso la commediola della nostra vita politica.

La storia di Medea che, tradita, ammazza i figli avuti col marito fedifrago Giasone non è proprio quello che leggeremo sui rotocalchi a proposito della fine di questa storia d’amore tra Berlusconi e Fini. E non solo perché non ci sono più penne in giro come quella di Euripide, ma per via della stessa materia della narrazione. Più vicina a quella dei capponi di manzoniana memoria.

Si erano messi insieme non si sa bene per cosa. Anche perché nessuno si è mai premurato di dire che cosa fosse Forza Italia, né in che credesse Alleanza Nazionale. Si è sempre obiettato alla sinistra di avere al suo interno come collante solo l’antiberlusconismo. Ed è vero. Ma alla prova dei fatti, il linguaggio della destra di marca liberale (come vogliono essere Fini e Berlusconi, quantunque ciascuno a modo suo) si è arenato sul più banale dei termini che un politico possa usare. Perché che si debba ‹‹fare›› è scontato, molto meno ‹‹che cosa›› si debba fare e ‹‹chi›› debba fare. E, soprattutto, per quale fine ‹‹fare››. Un’azione senza riflessione è lucida quanto quella etilica: alla fine l’ubriaco finisce contro il muro. (Appunto).

Alla direzione nazionale dello scorso aprile in cui iniziarono a volare i piatti in famiglia, il documento finale, letto da Maurizio Lupi, uno che fa professione di ciellismo e di “personalismo etico”, diceva che il Pdl era nato per servire il ‹‹popolo››. Ostentazione di pura fede sovietica sul palco del liberalismo (per quanto all’amatriciana) nostrano. Da allora, sono iniziate le scomuniche dei dissidenti – alquanto abbozzate: senza ortodossia non ci sono eretici. Giorgio Stracquadanio, “maitre a pensar” del garantismo italico, alter ego berlusconiano del granatiere di Fini, ha tentato più volte di riassumere il capo di accusa: è sulla giustizia che il rapporto si è incrinato. Non nelle fabbriche, dove si perde il posto di lavoro e perfino la vita; non nelle università e nella scuola, dove di perdono anni di studio e non si inizia mai una carriera; non nel mercato, dove l’Italia non è più competitiva da decenni: nelle aule di giustizia si serve il popolo; lì dove, dati gli impegni con i sodali di cricca e le compagne di letto, la classe politica non trova il tempo di andare per discolparsi da gravissime accuse.

Diceva un secolo fa Georg B. Shaw ‹‹Gli inglesi non saranno mai schiavi. Avranno sempre la libertà di fare ciò che il governo e l’opinione pubblica pretendono da loro››. Facciamo le dovute correzioni, e capiremo cosa sia possibile dire e fare all’interno del Pdl, senza cadere nell’ostracismo plebiscitario dell’ufficio di presidenza, il Politburo del nuovo ordine liberale.

È che, col tempo, le ossa si intirizziscono, si irrigidiscono gli schemi mentali, e si fanno monolitici i sistemi politici. E, non sopportando le oscillazioni, crollano. Fu così che l’Ancien régime si trovò con la testa sotto la ghigliottina: convincendosi che tutto era sotto controllo. O che quanto meno lo sarebbe stato.

Se Berlusconi è diventato servile col ‹‹popolo››, Fini lo è verso le intellighenzie di cui si è conquistata la considerazione ma non la stima. Per loro rimane il “fascistuccio” di sempre, ma un poco più urbano di ieri, perché ora capace di mentire a se stesso dicendo cose assai gradite ai giornalai. E se a Berlusconi va bene andare da ogni parte purché non in tribunale, a Fini basta una poltrona nel circuito mediatico degli scribacchini del Cervello Unico. È un ambiente saturo quello, ma di camminare Fini non ne ha più le forze. L’anello del potere che ha portato per anni al collo, tra la venerazione di un popolo che ne apprezzava le capacità retoriche, la coerenza e la severità, ne ha conquistato l’animo: non riesce a staccarsi più dal ‹‹suo tesoro›› , quantunque il potere lo abbia così tanto logorato da renderlo irriconoscibile. Stanco, senza più idee, ricicla pure l’acronimo di una passata esperienza, senza poterla più ripetere. Non perché sia morta An – perché ancora avrebbe un popolo e un elettorato – ma perché non c’è più Fini. E, peggio, perché Fini non è mai stato Almirante.

Sommando tutto, c’è chi può affermare di averlo detto quasi un anno fa che la destra italiana fosse morta. Perché questo è il vero dato tragico: l’Italia non ha più uno schieramento di destra. Perché quella compagnia, dovendo fare i conti col potere dell’anello, alla fine si è sciolta, tra invidie, faide, e meschino protagonismo. Alla fine della fiera, la classe dirigente della destra italiana non si è mostrata meno faziosa e più coraggiosa di quella della sinistra.

Un popolo diviso eravamo prima di Fini e Berlusconi. Un popolo diviso restiamo (e forse ancor di più, grazie alle legittimazioni che le idee separatiste della Lega hanno avuto in questi anni). Ed è sicuramente questo ciò che sarà difficile farsi perdonare.


Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 31 luglio 2010.

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