"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

25 novembre 2009

LO STATO SU PALAFITTE


di Antonio Giovanni Pesce.



Dal momento che la giustizia dei tribunali non funziona, qualcuno, in televisione, mira a supplirla da un paio di lustri a questa parte. Più sommaria, visto che libresca è la cultura che la esprime. E la retorica scade in caciara, dato che i nuovi giudici sono nel pieno delle loro funzioni proprio quando l’alacre lavoratore riposa. Pagata con i proventi della pubblicità, è ben più accessibile di quella forense – un telecomando e tanta compiacenza. E inoltre, vivendo di luoghi comuni, dice quello che o è del tutto ovvio dire, o ciò che lo è diventato frattanto che si fanno i palinsesti.


Domenica 15 novembre si processava, in diretta, l’ormai noto docente di economia dell’università di Catania, caduto miseramente dalla cattedra e salito agli oneri del patibolo per lo squallido modo che aveva d’interrogare le sue allieve. Miseria umana, in giro, ce n’è abbastanza, e indugiare su questo, tra le tante cose che si possono dire, non è proprio il caso: che il male esista, e che di tanto in tanto capita a ciascuno di noi lasciarsene far preda, è un fatto, e dei fatti si può solo dire che sono e quel che sono, e il discorso finisce lì. Ma se il delitto non può lasciare indifferenti, è perché sappiamo quale verità si cela dietro l’errore, e nel mostrarla tono delle argomentazioni, competenza del giudice e luogo del giudizio devono essere degne del compito che si arrogano. Faceva una certa impressione vedere il magnifico rettore dell’ateneo difendere l’istituzione che rappresenta dalla scostumatezza, proprio in quei luoghi dove se ne è scoperta, negli anni, molta più di quanta se ne possa imputare alle scienze deturpate dai pruriti sessuali, o presunti tali, di uno solo.


Conosciamo la compravendita politica a cui la RAI neppure più s’oppone. E si possono ammirare su tutti i giornaletti di cui sono piene le edicole e i saloni di bellezza, le prodezze culturali e l’integrità morale di buona parte di quanti, ogni giorno, imboniscono il popolo radiotelevisivo. Non c’era da aspettare la viltà accademica per stimmatizzare i limiti dell’uomo: ben che meno per edificare un popolo che di esempi scarseggia da parecchi anni a questa parte.


Perché se il magnifico rettore "non poteva non sapere", secondo il famoso adagio la cui validità dipende dai soggetti ai quali lo si applica, e riutilizzato da intrattenitrici catodiche in sottoveste nell’ora della pennichella, che dire del silenzio che i censori di questi brutti tempi fecero calare sui guai della loro azienda, quando si scoprì che il direttore generale dell’epoca riceveva precise indicazioni su quali strade spianare ai sollazzi femminili di alti rappresentati del governo, o su come costruire, con grave dispendio di denaro pubblico, un’impalcatura carnevalesca, più che storica, ai deliri più volgari che secessionistici di coloro che reggono le sorti dell’esecutivo attuale? Un’intercettazione varrà pure un filmino. Ma nessun Catone del servizio pubblico, in quel caso, si stracciò vesti o si disse disgustato, e basterebbe questo a denunciare il nostro male – quello che attanaglia l’Italia. E che una macchietta, aizzata dal rabbioso applauso del pubblico, proprio in quel processo mediatico mostrò nella sua più barbara realtà: la giustizia la fa la televisione – e velocemente- non la magistratura. Sia la telecamera di un editore o quella di un altro – meglio, “dell’altro”, perché poi non c’è molto da scegliere – l’importante è che lo spazio pubblico sia liquido, estensione della comprensione personale del reale, e modulato secondo gli affetti propri.

Passi che una giovane donna, magari impaurita per il lugubre gioco a cui l’irresponsabilità altrui l’aveva chiamata, non sappia come gestire la spada che gli pende sul capo. Ma che dire di chi ha avuto, tra il trucco e le pause pubblicitarie, tutto il tempo per riflettere sul dramma altrui?


È lo stato che muore. Lo stato, come spazio intersoggettivo fondato su leggi giustificate. Docenti che hanno le proprie griglie di valutazione; magistrati che scelgono il proprio imputato; legislatori che si fanno le proprie leggi. Uomini che sono tali o no a seconda del dettato dei propri genitori; processi che hanno ognuno la propria durata massima; delitti che entrano ed escono dal codice penale, ecc. Possiamo continuare con la religione, dove ognuno da sempre è libero di scegliere a che santo votarsi, ma ora anche il papa al quale obbedire; si può proseguire con la cultura, che ha disseminato la storia di scuole, ma la loro assenza una volta definiva inciviltà, ed oggi s’inventa, invece, pedagogismi nel disperato tentativo di accreditare il proprio fallimento; si finisce (solo momentaneamente) con la morale, per la quale se la soppressione di chi gode di scarsa salute fisica avviene oggi e senza croci uncinate all’occhiello, si chiama dignità individuale.

Il mondo post-moderno e post-cristiano è, ormai, pure post-umano: non più Stato, ma dominio, e il dominio è lo status quo che ha come fine se stesso per giustificare come mezzo se stesso. Non c’è più un luogo dove gli uomini s’incontrano per discutere, ma uno spazio dove si scontrano per dominarsi vicendevolmente. Ci si scanna come nella giungla, e si replica con la legge della giungla. Dio non c’è più, e piuttosto che vedere la piccola umanità stringersi e affratellarsi, come per alcuni avrebbe dovuto essere data la scomparsa delle religioni che dividono, le persone sono sempre più individui, sempre più soli. I giornali sono passati, come a loro volta fecero passare le piazze. Oggi vige l’autorità della televisione, la produttività dell’audience.


Può una società basarsi su palafitte? No, abbiamo perso quel fondamento, il Logos, a cui perfino il Papa – visto che non lo fa chi di dovere – ci richiama continuamente. La ragione che fonda è l’unica catena per tenere placate le pulsioni: più fondata è una norma, più corroborate sono le azioni conseguenti. Ma ormai la vita – non si dice così? – è breve, e breve le carriere (tranne quella politica, dove la minima longevità registrata è di quindici anni), perché breve (e veloce) è la spazio in cui si deve produrre. E quando il tempo stringe, non si taglia con il bisturi, ma si sminuzza con la mannaia.

Non ci sono più ragioni da argomentare, ma opinioni da esporre. E capita che quelle dei competenti- circa l’Accademia, per esempio – siano meno produttive degli scollacciamenti fotogenici di chi ha un curriculum televisivo più ampio del proprio libretto universitario.


Antonio Giovanni Pesce

Nessun commento: