"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

4 novembre 2009

IL SISTEMA EGUALITARIO DELLA MORTE



Nella vita si può anche fallire. Fallire definitivamente.

Sul suicidio della brigatista Diana Blefari Melazzi


Antonio Giovanni Pesce




La morte è la chiusura di un capitolo. Ma è una chiusura necessaria. Poi, se ne potranno scrivere altri, forse un altro, lunghissimo, perenne. Eterno, magari. Per intanto, quello che abbiamo iniziato anni addietro; quello che altri ci hanno suggerito come iniziare, quello finisce. Per diverse ragioni. Una, la più dolorosa, la più umiliante di tutte, è quella di chi sente di non aver più nulla da dire. E scrive la fine così, di punto in bianco. Un giorno, ci si sveglia senza sapere che altro aggiungere: il redattore chiama, chiama continuamente, e la pagina tua è ancora vuota. E il redattore chiama: il giornale va in stampa, comunque. Le pubblicazioni non si possono fermare, si va in stampa; orsù, più moderni: si va in onda, e qualcosa la si deve biascicare. E la si biascica, magari. E il redattore non s’accorge, e non s’accorgono i tuoi colleghi che la tua vita è diventata afasica.

C’è un’altra ragione, però, ed è davvero dolorosa, se un giorno si smette di abbozzare idee sul mondo: perché si capisce che quelle già abbozzate sono state un fallimento. Non ha senso aggiungere altro, perché quello già scritto non ne ha alcuno di suo. E quando ciò accade, tutta la vita – l’unica vita che si ha, e non ce n’è altra – appare un’opera confusa, quando non addirittura inutile.

La morte è l’unico sistema egualitario che l’uomo possa sperimentare. La vita è distinzione: la morte no. E se in vita Diana Blefari Melazzi, la terrorista delle nuove Brigate Rosse morta suicida in carcere alcuni giorni orsono, ha fatto di tutto per sorprendere la nostra piccola borghese esistenza, in morte non c’è nulla del suo dramma che ci sfugga. Si sarà sentita sola, lei proletaria, durante i suoi anni trascorsi in un mondo capitalista che non capiva. Morta, non c’è nessuno, dotato di un minimo di sensibilità, che non possa intuire cosa le sia deflagrato dentro. Non sappiamo nulla di come avrebbe dovuto essere il mondo che lei sognava, ma conosciamo bene quello che con lei condividiamo, ed è un mondo fatto di tante cose, certo, ma di tante cose che hanno il senso che l’uomo dà loro, ed è sul calcolo finale che si gioca la partita: il senso che diamo al nostro mondo è ciò che noi siamo, ed è per questo senso che saremo giudicati.

La rivoluzione è la più angosciante di tutte le possibilità che abbiamo di spendere il nostro tempo terreno: si corre sempre, e non si arriva mai. Come tutte le illusioni, il presente che ci appartiene lo si svende per un improbabile futuro. Di perenne, come la rivoluzione secondo Trotsky, c’è solo l’accumulo di capitale, e se così non fosse, si capirebbe subito che è una farsa.

Domani, dunque, arriverà la riconciliazione con ciò che sicuramente ha da essere. Per intanto, la gente si distingue in classi: quelli che non hanno capito, e che vanno edotti; quelli che hanno capito, ed è per questo che si oppongono, e che vanno seppelliti; quelli che, infine, hanno capito tutto, sanno di avere ragione, e seppelliscono. Resta, in quest’ultimo caso, da decidere chi, se se stessi o gli altri. I profeti non sbagliano. Il materialismo storico crea quest’autocoscienza di classe, questo bubbone che rode il sistema dominante. Non c’è errore: Isaia parla, Israele ascolta.

Oggi, su parecchi giornali ci si interroga sul senso di quel gesto, e se si poteva fare qualcosa perché ciò non accadesse. Era malata, malata dentro, e noi potevamo capirlo, ovviamente; potevamo rendere la pena più decorosa, perché le nostre carceri sono davvero disumane (chi sa se la Blefari era in cella con altre sei persone, come buona parte dei detenuti italiani!); e poi, cosa è questo ergastolo? Passi che si creino leggi ad hoc per proteggere alcuni “più egualitariamente” di altri (un po’ quello che stava accadendo con la legge contro l’omofobia), ma l’ergastolo proprio no! E che soluzione dare? Si sfornano parole, senza spiegare come dovremmo fare, cinque, dieci, o cento che siano gli anni da passare dietro le sbarre, per rendere meno cocente la sconfitta di una vita.

Non volere la morte di qualcuno non comporta, necessariamente, evitargliela. Prima o poi sarebbe successo. E se può sembrare mancanza di tatto per il morto il dirlo, non è mancanza di attenzione per la vita l’averlo pensato: si chiama rispetto. E il rispetto per la libertà di ogni uomo deve essere massimo. Liberamente, la Blefari ha deciso di fare quel che ha fatto. Liberamente, ha ucciso un uomo, il giurista Marco Biagi. Liberamente, ancora, è rimasta sulle sue posizioni, aggiunge altro sgomento a quello che ognuno di noi può provare davanti al corpo martoriato di un uomo. Liberamente, infine, ella ha deciso per una forma di convivenza civile, che se divenisse maggioritaria, non stenterebbe ad usare metodi ben più cruenti per reprimere i “sovversivi” di quello impiegato per piegare lei. L’abbiamo giudicata in vita, non lasciandole vivere quel sogno che voleva imporre a ciascuno di noi – e si sa che i sogni o sono liberi o sono incubi. In morte, doniamole quel rispetto che si deve ad un militante: ha combattuto la sua guerra, e l’ha persa. Ha scelto, però, ha scelto ancora una volta – fosse anche sbagliata (ed è così che io credo) quel gesto è frutto di una scelta: quel gesto, il suicidio, è la scelta, la scelta sua, e non si vede come avremmo potuto impedirlo. La psicologia è una bilancia per nulla scandente, ma a volte viene taroccata dal troppo zelo. Attenzione a pesare un tanto al chilo le vite altrui.

Il mellifluo sociologismo con cui si sta analizzando l’accaduto non tiene conto proprio di ciò che avrebbe voluto vedere salvaguardato, cioè quella persona che si pone in assoluta libertà davanti al proprio destino. Che, come vado spesso dicendo, non esiste, ma è solo il bandolo della matassa dell’esistenza, almeno per chi riesce a trovarlo. E per chi, trovatolo, non lo perde.

La vita - questo è il vero rischio - può conoscere anche forme estreme di fallimento e, fra queste, quello di non capire di aver fallito. Speriamo che quell’ultimo gesto disperato le abbia aperto gli occhi, infine, su una speranza mai vissuta. Speriamolo, con fede e con ardore. Ma non assurgiamoci a ruoli che non ci competono.

Dio e la coscienza umana non sono tangibili.


Antonio Giovanni Pesce


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