"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

11 aprile 2009

IL SENSO DELLA VITA E IL DOLORE UMANO



C’è una storia, sulla vita umana, che fa grosso modo così. Una cometa ha portato la vita da un lontano pianeta, o forse era già contenuta nella primordiale ed eterna unità del Tutto indistinto. Poi, un giorno, il Tutto si divide nel Molteplice, e la vita è una di queste parti. È piccolissima, meno di un granello di sabbia, ma si diffonde con una velocità incredibile, neppure fosse un virus. Si evolve, nascono specie sempre più complesse. Nascono gli animali, nascono i vertebrati, nascono – si sviluppano, è meglio dire. Per farla breve, da una non meglio precisata – si dice “causale” – alchimia di avvenimenti e permessi genetici, si sviluppano i primati, e da essi, sempre per la medesima alchimia, i primi esseri umani. Scimmie un tantino più evolute. Poi, sempre più evolute. Alla fine del discorso, le scimmie di ieri sono gli uomini di oggi. Esseri che, se hanno la fortuna di venire al mondo, non hanno nulla da aggiungervi: si innamorano perché sentono odori, pensano perché producono composti chimici, credono perché il loro cervello, meglio sviluppato dei primati che li hanno preceduti, riserva a questa pia pratica un posticino al suo interno – anche questo non ancora ben definito: l’importante è che c’è, è lì e siamo tutti contenti e soddisfatti.

La storia metterebbe un poco in imbarazzo i genitori verso i figli: ammettere davanti ai loro visi che la loro esistenza è frutto di un istinto primordiale di accoppiamento, e che le tante giustificazioni stilnovistiche e romantiche della faccenda sono una parata puritana, non deve essere molto semplice. Però, solitamente, la coerenza dei genitori non si incrina su questo aspetto: il più delle volte, i profeti dell’Esodo che ha portato gli uomini dall’inciviltà alla società tecnocratica sono buone penne, e con le penne, imbevute di ideologia più che di scienza, ci scrivono racconti convincenti da spacciare per vangelo, venduto solitamente a venti euro al tomo. Ci comprano scarpe alle mode, jeans griffati e pacchetti viaggio completi: la coscienza e la coerenza possono attendere.

Però, c’è un giorno che attende tutti, in cui nodi li si deve sviluppare: finché si gode, amen. Ma quando il dolore e la sofferenza fanno capolino nella propria esperienza, anche se indirettamente, anche se solo come esperienza del dolore altrui, allora i figli domandano, le generazioni più giovani, solitamente non ancora dentro il sistema ideologico che paga il silenzio della coscienza con la fama del nome, si inquietano, e i profeti lanciano il loro guaito al cielo: Dio non esiste, altrimenti perché l’Abruzzo, terra fra l’altro assai cristiana, si è coperta di macerie e bare? Ecco, dicono, Dio non esiste. E questo passi. È che poi non riescono a far tornare i conti, ad essere coerenti: proprio perché Dio non esiste, è assurdo il dolore psichico, la sofferenza dell’angoscia davanti all’assenza di una risposta. Se siamo carne da vermi, avremmo dovuto metterlo in conto già all’inizio della nostra avventura su questo paradiso … la polvere non dovrebbe domandare, perché non merita risposta. Perché, di fatto, una risposta non c’è. Domani, un altro essere prenderà il posto del piccolo d’uomo che riempie colla sua carne la bara bianca. E sarà sostituito in fretta, perché di solito, dopo la morte, la specie si riproduce più in fretta per non estinguersi. Quindi, nessuna risposta, perché non c’è nessuna domanda. E se c’è, è assurda punto.

Questa è una storia. Ce n’è un’altra. Un’altra storia che parla di un senso profondo dell’esistenza umana, di un’esistenza voluta e pensata, nonostante il titolare non abbia potuto volersi e pensarsi. È una storia che parla di un amore incalcolabile e di un sacrificio che non conosce pari. Parla di un re che lascia il suo regno e si fa servo. Parla del più giusto dei giusti che, venuto per dare un senso, un significato perfino alla carne cibo per i vermi, trattato come il più vile dei farabutti. Parla di un immortale che si è fatto mortale per vincere la morte. Parla di un onnipotente che conosce la forza della sofferenza.

Nel 1755, a Lisbona, un violento terremoto coinvolse qualcosa come dodicimila chilometri quadrati. La scossa pare sia stata avvertita pure in Germania. Nacquero riflessioni su riflessioni, alcune dentro le sacrestie, dove zelanti interpreti del volere di Dio attribuivano la sua ira allo scempio portoghese nelle colonie – un po’ di sana autocritica, ma poteva essere fatta a prescindere dalla volontà divina; altri, i più, si interrogavano sull’esistenza di Dio: un dio buono e misericordioso può fare questo? può permettere la morte dell’innocente? Ricordo questa domanda posta al suo intervistatore da Flores D’Arcais, che in fatto d’ateismo pare intendersene. L’ateismo è ormai molto remunerativo, non solo ci campi la famiglia, ma ti fai un mucchietto di soldi, come dimostrano i successi editoriali di Odifreddi e Onfray. Certo, le premesse, se sono queste, conducono quantomeno verso il dubbio, al quale si suole rispondere dicendo che la volontà di Dio è talmente grande, che non possiamo sapere che cosa voglia dirci. In un modo o nell’altro, la gente abbandona la barca che affonda.In tutta la mia vita, il dubbio mi ha angosciato più di una volta, ma mai mi ha assalito quando la mia felicità vacillava. Lauretta è stata mia compagna di studi ai tempi del ginnasio. Una ragazza dolcissima, la voce flebile e tenera. Rimproverava a Dio, durante le ore di religione con la professoressa Geltrude, la morte di una sua giovane conoscente, che al mondo lasciava dei bambini piccoli. La professoressa taceva, abbozzava una risposta, e mentre la domanda di Lauretta mi sembrava manieristica, ma almeno sincera, quella della docente mi appariva vergognosamente ipocrita. La morte è uno scacco, la dimostrazione del fallimento – la si legga come la si vuole così è. Eppure, come gran parte degli abruzzesi che oggi si affidano più a Dio e all’affetto di coloro che gli sono rimasti in vita, che non alle promesse dei politici, alle bagarre degli scienziati, all’interessamento interessato dei giornalisti, io che allora nelle orecchie avevo ancora nitido lo schianto della vita sul muro dell’assurdo, ero tra i meno propensi alla ribellione. Ricordavo pienamente che la vita mai appare così ricca di significato, che quando ci si incammina dalle convinzioni del sinedrio alla follia della Croce. La sofferenza, il dolore, la morte spalancano abissi di senso, la nostra esistenza, nel momento in cui il baratro ci è vicino, dimostra la sua più intima essenza: allora si scopre, ed è autentica la scoperta, di essere o no coraggiosi; allora la tempra morale dell’uomo emerge dai vizi che nella quieta la infestano.

Nessun dio è venuto a prometterci l’immortalità. Nessun dio promette felicità in questo breve pellegrinaggio. Le cose non stanno come i rotocalchi descrivono: la vita non si colora di rosa che nella chiacchiera. Ad onor del vero, nessun dio è mai venuto. E Colui che è venuto, si è fatto in tutto simile a noi, fuorché nel peccato: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48) ha detto Gesù, non già “onnipotenti”, “immortali”, a dimostrazione che la natura umana è quella che è, ed egli l’ha subita morendo, e morendo di una morte di croce (cfr. Fil 2,8); che, semmai, è lo spirito a dover abbattere le barriere del limite – e qui non c’è limite alla perfezione: “poco meno degli angeli” ci ha fatti (cfr. Sal 8,6).

Quel vero Dio che è morto in croce da vero uomo non ha sperimentato la storia dalla parte dei vincitori, coloro che scrivono – e leggono (ti ci metto dentro, caro lettore) -le riflessioni filosofiche sul dolore altrui. È venuto ed è stato dalla parte dei vinti, perché, per il mondo del sinedrio, egli è stato un perdente. Caifa è andato a letto la sera del venerdì pensando di averlo sconfitto, e quando il mattino della domenica trovarono il sepolcro vuoto, poté attribuire la colpa di questa mistificazione alla Chiesa: ieri come oggi, quando i conti su Gesù non tornano, è sempre colpa dei “Suoi discepoli”. Caifa si addormentò nella vita convinto di aver battuto il Nazareno. E Giuda lo tradì perché non era venuto con armi in pugno a farsi Re dei Giudei (se non sulla Croce). E Pietro lo rinnegò nel momento della prova.

Questo Dio che Paolo di Tarso annuncia al mondo è il Dio degli sconfitti della storia: la professoressa Geltrude sbagliava in questo con Lauretta, Melita, Emanuela, che non aveva il coraggio di dire a loro e a se stessa, che la storia dell’uomo è la storia di una sconfitta. Di uno scacco impressionante, che falsifica ogni illusione ed ogni speranza. La morte non dà scampo. C’è, e prima o poi la conosceremo tutti, e buona notte al secchio, pieno di propositi e di orgoglio. Se vogliamo andare oltre la morte, allora non ne avremo mai ragione da vivi. Morire pur si deve, prima o poi. Possiamo evitare di morire in un’occasione, ma alla fine, quella occasione definitiva, verrà sicuramente. Ma capire il senso profondo della vita è imparare a non morire: la carne è debole, non lo spirito. E dello spirito i vermi non avranno mai ragione.

Questo insegna Gesù di Nazareth, a non aver paura della morte. E si smette di temerla, quando si scopre che la vita ha un senso, e non balla la sua macabra danza sul palcoscenico dell’assurdo. Si piange da uomini, e si continuerebbe a piangere da uomini… i cristiani, invece, sperano.

O la sconfitta della morte – che i cristiani sperimentano con i tabernacoli vuoti dal venerdì all’alba della resurrezione – o la sfida della vita eterna – un sepolcro devastato da un’esplosione di luce. Non conosco altre vie di uscita. Ognuno sia coerente con la propria. Io credo che duecentocinque bare, schierate nel piazzale di una caserma de L’Aquila la mattina del venerdì santo 2009, siano duecentocinque croci, alle quali ci lega, oltre la morte, la potenza di un Amore immortale.

5 commenti:

Pietro ha detto...

Buongiorno! Mi chiamo Pietro Tedeschi, sono studente al primo anno di Filosofia, alla statale di Milano...ha mai letto Qualcosa di Heidegger per caso?

Antonio G. Pesce ha detto...

Forse.
Ma quando scrivo, non gli chiedo mai il permesso.

Pietro ha detto...

No beh, volevo sono chiederle cosa ne pensa...io lo sto studiando ora e mi è parso che possa rappresentare una terza via, valida alternativa alle due che lei ha descritto. Forse mi sbaglio però, o forse il pensiero di Heidegger esula da questi temi. Lei che dice?

Antonio G. Pesce ha detto...

Le rispondo subito. prima però, la prego di comprendermi: con quel nick lì, e i folli che passano di qui lasciando traccia di sé .... credo di essere giustificato a pensare ad una provocazione, non crede? ;-)
Guardi. Per comprendere bene il pensiero di H., visto comunque da un maestro del pensiero italiano, le consiglio C. Antoni, L'esistenzialismo di M. Heidegger, Napoli, Giuda 1972.
Cosa è il pensiero di H.? E' un profondo immanentismo storicista: l'essere si dà attraverso la sua ricerca. Che vuol dire? vuol dire che lei ed io poniamo la domanda e ne cerchiamo la risposta,ma questa domanda e questa risposta sono sempre condizionati.
Quindi, la posizione di H. sul senso della vita umana non è una terza posizione, ma la posizione che spiega 8a suo modo) ogni altra domanda: ieri era Dio il senso profondo della nostra esistenza, oggi la scienza, domani non sappiamo. Sappiamo che l'essere si dà, e che oggi si dà così.
Per molti versi, mi sono permesso di dire in altra sede che la risposta che ci arriva dall'essere è, in realtà, l'eco della domanda che abbiamo posto.
Non so se sono stato chiaro. Lo spero. ma continui a 'provocarmi',e grazie per la sua attenzione.
AGP :-)

Pietro ha detto...

Mi scuso per il Nick, in effetti trae in inganno ed è piuttosto vergognoso. Provvederò a cambiarlo, è da un pò che ci penso...volevo comunque ringraziarla per la risposta, è stata per me chiarificatrice. Credo che leggerò il libro che mi ha consigliato. Continuerò a seguire il suo blog, è davvero interessante!
Pietro