"-E' come nelle grandi storie, padron Frodo, in quelle che contano davvero. Erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi nemmeno sapere come andavano a finire, perchè come poteva esserci un finale allegro? Come poteva il mondo tornare come prima dopo che erano successe tante cose brutte? Ma alla fine, era solo una cosa passeggera, quest'ombra. Anche l'oscurità deve finire. Arriverà un nuovo giorno, e quando il sole sorgerà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, che ti insegnavano qualcosa, anche se eri troppo piccolo per capire perchè. Ma credo, padron Frodo, di capire. Ora, so. I protagonisti di quelle storie avevano molte occasioni per tornare indietro, ma non l'hanno fatto. Sono andati avanti, perchè erano aggrappati a qualcosa. - Noi a cosa siamo aggrappati, Sam? - C'è ancora del buono a questo mondo, padron Frodo. Ed è giusto combattere per questo."
J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli.

31 ottobre 2008

PER LA NOSTRA CIVILTA'. Lettera alla Gelmini



La lettera che segue è stata inviata alla signora ministro dell’Istruzione, dott. Mariastella Gelmini, non tanto per contribuire al dibattito – che non c’è – sul mondo della cultura e delle sue forme istituzionali di creazione e diffusione, quanto per testimoniare l’esistenza di una gioventù che non teme il confronto col cambiamento, riguardante e i suoi contenuti e i mezzi per proporlo ed innescarlo.


Signora Ministro,
mentre Lei e la piazza vi azzuffate come avari parenti al capezzale del morto, nel tentativo di strappargli anche quel poco che la morte non si poterà via, per pietà o per un azzeccato calcolo, io cammino col mio carico di libri per i corridoi quasi vuoti di una facoltà italiana. Per ora, Signora, l’unico favore che Lei mi ha fatto è quello d’essersi portata via, fuori da queste aule, fuori da queste biblioteche i crassi figli dell’aristocratica borghesia dei commerci e delle professioni, figli spenti di spenti padri, che inveiscono da quarant’anni contro il decoro delle nostre istituzioni culturali, spacciando per autoritarismo il rispetto della conoscenza, ma che poi, adoranti come invasati pellegrini, si recano, vomitata la loro boria sui marciapiedi delle vie, davanti alle vetrine di corso Italia, in Catania, o a Milano in via Montenapoleone, invidiosi più di chi ha che di chi più sa; restii a comprare l’ultima edizione della firma di Leopardi o di Manzoni, di Platone o di Kant, ma sguatteri fino a notte fonda in ristoranti e pizzerie per poter coltivare la speranza di vestire, un giorno, quella dell’ultimo pupo assiso su un trono.
Non protesto, Signora Ministro, e non perché d’accordo con Lei e col governo di cui Lei fa parte, ma perché in disaccordo con i protestanti caserecci che stanno sfornando i nostri licei e le nostre università, ultimo marcio prodotto di un’industria che, ieri, conquistava i dipartimenti e i centri di ricerca del mondo intero, ma che ora si trova con i depositi pieni di merce stantia e di scarsa qualità – senza sconto alcuno, neppure per quella che qui scrive.
Non protesto perché, vuoi per carattere vuoi per continue laringiti, non ho mai avuto l’attitudine all’urlo, che ho sempre mal sopportato soprattutto in gola di quelli che si dicono tolleranti, od intelligenti, od onesti: quando si è sicuri della verità delle proprie affermazioni, è meglio avvalersi di metodi più consoni ai galantuomini. E poi, temo che nei porti e nelle caserme d’Italia prevalgano altre discussioni, che non quelle concernenti le nostre scuole. Non solo non saprei urlare slogan, ma col tempo ho disimparato pure a coniarli, e ciò è avvenuto quando ho sentito ricadere tutta sulle mie scelte la responsabilità del mio futuro. Cerco di essere un cittadino serio perché prendo con serietà la vita: non mi va più di giocare al ping-pong delle chiacchiere, delle dichiarazioni, né di scrivere sulla lavagna il nome dei cattivi - quasi sempre coloro che osano urtare la cieca fede nella giustezza delle nostre idee o in quelle del nostro partito. Oggi so di partecipare alla costruzione del domani, e per dare segno del mio interessamento basta scrivere qualche riga, non bruciare automobili (altrui) o danneggiare fabbricati (altrui). Basta essere in buona fede nel sostenere certe posizioni, e tentare di giustificarle, evitando la tendenza manichea a ritenere necessariamente sbagliato tutto ciò che si pone al di là dell’orizzonte che si è preventivamente tracciato.
Inoltre, non protesto perché non voglio una scuola ed un’università “più democratica”, “di massa”, ma migliore. E per me una cosa vale altre cento, se è la migliore. Nessuno del resto si curerebbe delle tendenze democratiche del medico, se esso non fosse in grado di cauterizzare il pus prima che incancrenisca. Quel che serve ad una società di uomini (per le bestie non saprei dire) è che tutti possano avere accesso alla complessa comprensione del reale, che non si acquista con moderne alchimie socio-psico-pedagogiche, bensì col vetusto sacrificio, coll’antica abnegazione, col negletto studio; quello che serve è innalzare tutti all’intendimento della realtà, non già abbassare la conoscenza a mera pergamena e lustrini. Proprio la messa in saldo del titolo di studio ha aperto la strada per il disconoscimento del suo valore legale, e in un paese come l’Italia, dove le guardie si riconciliano con troppa facilità con i ladri– e fosse questo solo un bel film!, neppure i costosissimi masters, divenuti ormai il salvacondotto per giungere in tempi ragionevoli all’occupazione (funzione che non viene più assolta dalla laurea, inflazionata assieme alle facoltà e alle cattedre), riescono a produrre quella selezione necessaria alla qualità – non alla quantità – del lavoro spirituale di una nazione: selezione che in Italia non si è mai fatta non dico tra l’uomo colto e quello un poco meno colto, ma fra la persona ragionevole e l’emerito imbecille. Ma siccome i posti son quelli che sono, destra o sinistra che sia al potere, la selezione nel nostro Paese avviene per altre vie, e il figlio dell’operaio, sempre additato come esempio di scarse opportunità, chi sa perché tra i vincenti quando si tratta di venire selezionato per senso di sacrificio e per competenza, finisce scartato a priori quando si tratta di rubricare conoscenze olimpiche.
La nostra nazione non riesce più ad uscire dal complesso di Menone, reso libero da Dio - o dalla natura o da chi Lei voglia – per le proprie capacità intellettive, ma reso schiavo dagli uomini per la sua condizione sociale.
A questo punto delle argomentazioni, molti mi chiedono di unirmi a loro, di far sentire con loro la mia voce. Ma questa reductio ad unum è peggiore del male che si vuole curare. Proprio la paura – ieri di chi si mangiava i bambini o del fascismo, oggi della deriva autoritaria, domani forse dei marziani che vogliono venire a conquistarci (per farsene poi che di un mondo di cafoni non è dato sapere) – ha impedito un sereno svolgimento di tutte le posizioni in campo. Io non temo coloro che possono uccidere il corpo, ma la stupidità e l’incuria, che uccide nel conformismo quell’alito divino che Dio ci ha messo dentro. Chi grida con megafoni per le strade la propria paura per la fine della democrazia è come lo scettico che è certo che non vi siano certezze; e poi, vadano in giro per il mondo, o leggano di più della condizione dei nostri concittadini europei settant’anni fa: se devono temere la dittatura, sappiano almeno di che cosa aver paura.
Non avrei tuttavia neppure sottratto metà della giornata ai miei studi, se non avessi l’impressione che la ragionevolezza della maggioranza di questo Paese venga fatta passare per accondiscendenza, e se non fosse dato dello stupido a chi non condivide quello che Lei e il governo avete intenzione di fare – o meglio, di non fare: perché questo è il punto, Signora. Non voglio entrare in polemica con taluni uomini dell’attuale maggioranza, né giudicare il pulpito, in verità assai scadente, dal quale viene impartita la lezione sulle capacità intellettive degli italiani, ma non vedo nella vostra azione nessun progetto per un cambiamento sostanziale dell’attuale situazione culturale. Perché vi è un dato di fatto, che né il governo né le opposizioni, né tanto meno il suo dicastero possono mutare: tra poco, quei tanto valenti combattenti per la democrazia scolastica, che vediamo arrabbiati sfilare per le nostre strade gridando ma non argomentando, diventeranno braccia per zappe e picconi. Tra poco, appena le élites delle altre nazioni, soprattutto di quelle emergenti, si interesseranno ai nostri lidi. Colonizzati in ogni forma di cultura – dalla filosofia all’arte, dal cinema alla quasi totalità delle branche scientifiche – tra poco saremo colonizzati pure nella conduzione sociale del nostro Paese: saranno altri giovani, non i nostri, a condurre le nostre aziende; saranno altre forze, non le nostre, a dirigere l’ossatura economica e tecnologica dell’Italia. Questo potrà suscitare scomposte forme di reazione, irrazionali nazionalismi, ma non potrà mutare lo stato delle cose: che la dirigenza del nostro Paese sarà in mano straniere – e, tra l’altro, giustamente, perché i mezzi di tale conquistata sono stati comprati a costo di duri sacrifici e di rinunce, che nessuno di noi vuole più sopportare. Mio padre un giorno morirà con un solo rimpianto: non aver potuto, infine, comprare l’Enciclopedia Treccani, perché la rata mensile, negli anni Settanta, era troppo alta per lui operaio metalmeccanico. Oggi la media borghesia pensa di dare tutto ai propri figli acquistando scarpe da svariati centinai di euro e l’ultimo telefonico multimediale.
Una scadente classe dirigente di oggi crea una scadente classe dirigente del domani. Questo manca nell’attuale panorama di riforma: un progetto culturale. Ma se manca una visione chiara delle forze spirituali di una nazione, manca pure un’idea chiara del ruolo che quella nazione deve avere nel contesto internazionale e dei traguardi che, internamente, vuole raggiungere.
Avete tagliato parecchie risorse alle università, sperando che i tagli si abbattano infine sugli enormi sprechi che ogni studente, se non in mala fede, può documentare. Per paura di apparire offensivo, mi limiterò a definirvi ingenui, se credete davvero che queste riduzioni verranno fatte a danno del nepotismo accademicamente imperante. Oltre questo, però, non si vede nulla, se non un minimo di buon senso, infarcito tuttavia di italiana ipocrisia: il grembiulino, per esempio, va messo per decoro e rispetto del luogo che, quando il servizio non è elargito con manica larga ma comprato a caro prezzo, nessuno addita come formalismi inutili, e non già per un improbabile livellamento sociale. E il voto in condotta è solo un modo di ricordare che l’essere umano è un animale politico, e che la differenza con le fiere non sta nell’ “animale” bensì nel “politico”: il rispetto delle regole è fondamentale per la civile convivenza, e l’ordine deve essere perseguito senza sconti o ammorbidimenti. Nella giungla sopravvivono i più forti – e non di ingegno. E la nostra specie ha bisogno della forza dell’ingegno per industriarsi a sopravvivere, non di chi sa farsi valere con la legge primordiale della robustezza delle membra o, anche, della sola voce. Ecco perché non comprendo tutto questo timore anche da parte sua nell’essere ancor più rigida: anni addietro, prima di derive ideologiche, si rimandava un giovane che non avesse raggiunto una capacità di convivenza sociale quantificabile come superiore al grado settimo. Non ho visto in tanti anni di scuola alcun genio bocciato per via di una comune vivacità o di divergenze di vedute col corpo docente. E questo perché, in casi di comportamenti assai disturbanti e disturbati, non si ha bisogno di un docente, ma di un buon specialista, che saprà meglio trattare il caso, mentre per quanto riguarda le divergenze di opinione con i docenti, che io stesso ho avuto negli anni del liceo, è bene ricordare a chi si fa scudo di questa forma di viltà, che per definizione la scuola pubblica è luogo di incontro di posizioni diverse: così almeno si obietta a quanti chiedono una maggiore pluralità di enti di istruzione.
Si è fatto presto a ridurre gli stanziamenti, giustificandoli o combattendoli con fiumi di inchiostro, ma nessuno ha detto che dalla scuola media inferiore giungono al grado superiore ragazzi semi analfabeti, ignari del mondo che gira loro attorno, e incapaci di esprimersi in un italiano più comprensibile di quello dei tanti stranieri, che si volevano portare a parte per insegnare loro una lingua che nemmeno i cittadini conosco.
Si è detto che bisogna incentivare il merito del corpo docente, e che verranno scelti i docenti più produttivi, e intanto, però, per aggiornare la propria graduatoria, si devono aspettare due anni; il più delle volte, portando solo il servizio come punteggio; e se qualche corso di aggiornamento è stato fatto, non si tratta di studi seri, ma di fantomatiche abilitazioni on-line, valutate alla stregua di qualsiasi laurea conseguita in atenei statali. Non solo, ma il corpo docente italiano, così incentivato alla formazione permanente, non può presentare il frutto delle proprie ricerche e le proprie pubblicazione che quando viene bandito un concorso a cattedre – cioè ogni dieci, quantici anni. Negli anni cinquanta, e ancora prima, non era difficile trovare nei licei più rinomati d’Italia fior fiore di intellettuali, e la cultura non veniva fatta solo negli atenei, ma anche nelle scuole superiori, oltre che qui divulgata. Ieri Giovanni Gentile spiegava ai maestri e ai professori la sua riforma e, con essa, il suo sistema filosofico, mentre oggi arrivano stringate circolari dal sempre meno vago sapore burocratico.
Si parla di combattere gli sprechi dell’università, ma si lasciano bivaccare isole felici per il carrierismo accademico. In anni passati, davanti ai disagi di tanti giovani, che magari avevano la sede della facoltà a un tiro di schioppo da casa, ma non gli uffici nei quali sbrigare le faccende burocratiche, né le biblioteche nelle quali reperire materiale bibliografico per uno studio più serio e approfondito – di questo, mi accorgevo se ne faceva a meno anche nei consigli dei docenti – mi chiesi che senso avesse creare strutture autarchiche ma non autocefale, quando ormai si lavora a tutti i livelli riducendo le distanze e la dispersione delle informazioni. E non capivo il senso di una laurea triennale, quando senza quella magistrale non si può accedere alla quasi totalità dei concorsi pubblici e nel privato, addirittura, si preferisce la vecchia quadriennale, ritenuta più seria. Consigliai ad amici e colleghi di tenere in debita considerazione questi aspetti, ma la riforma aveva colto il senso più profondo dell’attuale spirito italiano: non negare a nessuno un titolo di dottore. Migliaia di giovani sono stati cooptati nel presunto sistema culturale italiano più per fare numero negli indici OSCE, e favorire la spartizione di cattedre nate dalla mole crescente di popolazione studentesca, che non per un aumento delle capacità intellettuali e delle forze spirituali del nostro Paese. Si è trattato, di fatto, di una truffa, ma di una truffa affatto strana, di un tacito accordo tra truffatori e (presunti) truffati. Il frutto di questa illusione nazional-popolare giace, il più delle volte, incorniciato a far bella mostra di sé in salotto, senza che per questo abbia mutato le sorti individuali e quelle nazionali.
Siamo l’unico paese dove si paga l’accesso alla tanto decantata ricerca: è quello che accade a migliaia di giovani dottorandi senza borsa, mentre quelli che ce la hanno sono ritenuti fortunati perché, almeno, avranno per tre anni un introito di appena mille euro – quante volte inferiore allo stipendio di un deputato di questa beneamata Repubblica? Inferiore di un terzo del “rimborso spese” di un consigliere comunale di un centro di cinquantamila abitanti; metà del compenso di un assessore comunale di un paesino di diecimila abitanti. E tutto questo dopo anni di sacrifici propri e della propria famiglia, di umiliazioni, di privazioni. Per avere l’aumento di duecento euro, signora Ministro, i dottorandi con borsa sono stati costretti quasi ad elemosinare la firma del suo predecessore, frattanto troppo impegnato a creare un partitino, finito schiacciato dalla propria ammuffita testimonianza alle scorse elezioni politiche. Chi riesce a strappare un assegno di ricerca, non vede poi riconosciuti i frutti del suo lavoro, e quando ciò accade, è più merito personale del docente in grado più alto (ce n’è ancora di gente onesta in Italia, solo che da noi l’onesto vien fatto passare per fesso) che non del sistema accademico: mancano infatti i mezzi, legali e non solo, per un giudizio il più obiettivo possibile. E questo non accade solo a livello universitario. È proprio bacato il modo di pensare di una retrograda classe docente, che penalizza l’entusiasmo e la sana competitività dei nostri giovani, demoralizzandoli con discorsi moralmente indecenti: quante volte viene rimproverato ai più talentuosi di mirare troppo ai voti? Parte da qui un’omelia sul valore dello studio fine a se stesso, che non solo implicitamente denigra il ruolo di chi pontifica e del pulpito dal quale lo fa, ma che è anche illogico e confonde l’onestà intellettuale dei giovani: perché vergognarsi di vedere riconosciuto il valore delle proprie fatiche da chi, per dovere sociale e morale, deve valutarlo? E perché, poi, dare d’un tratto così tanta importanza alla valutazione, da ritenerla colpevole, qualora sia negativa e permetta la bocciatura, di irreparabili traumi? Queste in sostanza le obiezioni di un giovane liceale, che chiedeva a me un giudizio sull’operato dei suoi docenti. Ho tergiversato, ma non posso non accusare una categoria, quella degli insegnanti, che in Italia è malata di ideologismo, e che pensa di continuare a lavorare con mezzi arrugginiti e consunti – non posso non accusarla soprattutto ora, che quel giovane si è adeguato all’andazzo generale: studiare di meno, e vedersi comunque promuovere. Bel guadagno!
Siamo sull’orlo del baratro, e non vogliamo accorgercene. Perché sappiamo che, chi per primo se ne accorge, per primo dovrà porre rimedio: tanto meglio far lo gnorri.
Signora Ministro, vengo da un’umile famiglia italiana, a cui non dispiace far sacrifici e privarsi del superfluo – la storia di mio padre e di mia madre, come quella di altri milioni di nostri compatrioti, cavalieri del lavoro di fatto, è esempio di come l’Italia sia andata avanti nonostante l’inadeguatezza della sua classe dirigente. Non mi spaventa il sacrificio, ma la sua mancanza di senso. E mi spaventa ancor di più, che quel ricco patrimonio di significati che per decenni la scuola italiana ha saputo trasmettere, vada disperso definitivamente, e con esso il mondo interiore e la possibilità di una vita autentica di milioni di giovani. Non ci servono arzigogoli mentali per tornare ad essere una potenza culturale, ma il ritorno alle fresche radici della nostra civiltà. Non ci servono trovate sensazionaliste, proprio ora che non soltanto la quantità delle informazioni è importante, ma anche la qualità e la duttilità dei mezzi per trattarla. Su cinque pilastri la rimpianta vecchia scuola si poggiava, e su questi bisogna riedificarla: latino, greco, filosofia – magari con l’aggiunta di elementi di logica - algebra e geometria non sono pedanti strumenti di erudizione, ma esercizi per quella elasticità mentale, che per decenni avevamo viva sui nostri banchi e diffusa per le nostre classi, e che ora compriamo come software di piccoli computers prodotti proprio per tenere sveglia la mente. Magari quando è del tutto atrofizzata.
Siamo davvero sicuri, guardando gli ultimi ritrovati elettronici pubblicizzati, che le vecchie ricette sono da scartare?
Mi permetta, infine, una considerazione di natura squisitamente politica. Non so se sia liberalismo o cos’altro, ma credo sia di buon senso pensare che, certo, le proprie idee e valutazioni sono sempre le migliori, ma poiché è del tutto improbabile che il mondo intero decida di abbracciarle completamente – ammesso che ciò sia auspicabile – senza cadere in volgari forme di relativismo, che nel panorama politico italiano hanno significato trasformismo e una fiera sottobanco di accordi e poltrone, si potrebbe essere un po’ più disponibili all’accoglimento delle istanze altrui, soprattutto quando si hanno buone ragioni di considerare l’interlocutore competente. Questo non vuol dire dare ascolto alla piazza – ricordando quello che anch’io dicevo della scuola al liceo, mi viene il dubbio di non essere sempre stato alieno alla stupidità – ma ricercare un confronto con chi può consigliare, con tutta onestà, senza isterismi preconcetti o servizievoli indulgenze, la ricetta del proprio personale successo. E se mancano gli interlocutori, suscitarli.
C’è un grande assente nella discussione sull’istruzione: quell’intellettuale che senta su di sé il peso della civiltà che lo ha plasmato. Non mancano giornalisti saputelli, confusi studenti e arrabbiati politici, ma intellettuali veri che, servi della propria coscienza e dunque della coscienza di tutti, e non già di interessi particolari, provino a creare un sistema dove l’ampia diffusione della conoscenza venga sempre più gestita con competenza dai soggetti interessati.
Chi gestirà domani la conoscenza gestirà il mondo. Forse non possiamo impedire che ciò avvenga, ma possiamo ancora dare la possibilità a molti di controllare il potere e decostruirne i miti. Ma per fare ciò non abbiamo bisogno di titoli, ma di quella libertà che l’Occidente ha poggiato su pilastri forgiati nel silenzio e nella quiete dei chiostri.

Antonio Giovanni Pesce
Dottorando in filosofia
Università di Catania

2 commenti:

Anonimo ha detto...

...io ho deciso. mi ritiro a vita privata in campagna, in mezzo a fiori, piante, libri, cibo sano. e, se lo facessimo tutti, questa reinvenzione dell'otium potrebbe aiutarci a ritrovare noi stessi, a riconciliarci con la nostra parte umana, troppo a lungo soffocata dalle squallide figure che attraversano il paese, che ci indottrinano, tramite la tv, anche riguardo ai comportamenti più privati e personali, oltre che sulle scelte politiche...
chissà, magari ritrovando i valori nel silenzio, si può di nuovo ripartire oltre questa società..
un abbraccio,
spero che vada tutto bene... scrivi più spesso.
Anna Lisa :)

Antonio G. Pesce ha detto...

Ciao Anna,
sono felice di leggerti. Purtroppo tanti problemi ed impegni mi hanno impedito di chiamarti.
Stiamo vivendo tempi da basso impero: me lo hai fatto notare tu un giorno, mentre si parlava al monastero dei Benedettini a Catania. Ricordi?
Pensa: il grande Mazzarino scrisse qualcosa del genere, una specie di piccolo saggio di filosofia della storia per una casa editrice degli anni '70. Te ne parlerò, magari spedendoti un mio articolo su questi aspetti.

Ciao cara. A Presto.
Antonio.