Articolo scritto per il Corriere del Sud. L'originale porta la data del 29 gennaio 2000. Ne vado fiero ancora oggi di averlo scritto. E proprio oggi, che quel '92 non pare affatto lontano, si comprende meglio come alcuni, ancorché colpevoli, pagarono per tutti. per quelli stessi che, rimasti nell'ombra, hanno continuato a far marcire una nazione.
Il titolo è stato apposto in questa edizione.
Per un buon cristiano, sapersi
peccatore va di pari passo con la consapevolezza di non poter mai diventare un
buon giudice: non può condannare o assolvere, colui che ha ben chiaro come sia
deficiente di luce, e come questa, fonte di salvezza, gli sia stata donata da
Chi lo ama profondamente. Certamente non conquistata, né meritata mai, per
quanta buona volontà possa profondere il peccatore per la propria redenzione.
Non tocca a noi, dunque, che abbiamo ben chiare queste coordinate di vita, dare
l’ultima sentenza: ciò che egli sia stato come uomo, il chierichetto della
Milano post-bellica, il giovane militante socialista, il capo del terzo partito
politico italiano, il presidente che ha sfidato gli States, la pietra di volta
d’un sistema di corruzione e malaffare, tutto questo se lo porta nella tomba,
lì, in quel bianco cimitero sulla riva della costa tunisina, la lapide sulla
quale si riflette quella tanto agognata costa, quei lidi che egli, se non da
uomo libero, non avrebbe mai baciato, e d’ora, che è morto, non bacerà più.
Va da sé,
che se tutto questo non poteva essere evitato, che per Bettino Craxi, ormai,
era suonata la campana, comunque parte del dolore e della sofferenza potevano
essere leniti: davanti alla morte siamo con Dio, innanzi al dolore col nostro
fratello. E va da sé, ancora, che non serve a nulla ricordare come, anche da
queste colonne, si era alzata una voce di protesta, che, in nome di Dio e del
popolo italiano, invoca non l’amnistia, o che so altro, ma solo quella carità
cristiana, quei valori cristiani, che i
tanti parlamentari italiani, durante i giorni infuocati della campagna
elettorale, tirano a destra e a manca, convinti, a buon ragione, che le parole
di Matteo, Luca, Marco, Giovanni non sono soltanto stampate sui libri, ma,
ormai, radicati nella nostra Storia. Ne è dimostrazione, il fatto che, ora che
solo Nostro Signore può giudicare, ora che non servono più giudici e
magistrati, ora che, nel bene come nel male, una vita ha lasciato
definitivamente la sua traccia, ora che parola e silenzio, calunnia o verità
non hanno più importanza, qualche italiano, magari quello stesso italiano che
tirava monetine e imprecava davanti all’Hotel S. Raphael, ora tace, e forse
qualcuno ha speso pure qualche pensiero, per recitare, in silenzio, un requiem.
Davanti alla nostra umanità, con i suoi dolori e le sue gioie, siamo nudi,
spogliati di quell’ipocrisia, che un balordo gioco di potere ci impone di
indossare.
Latitante, certo,
quando decise di scappare, quando capì, o in questo vide un appiglio per non
pagare e difendere il proprio onore (lasciamo al lettore integra la propria
opinione, senza scalfirla con la forza del dubbio), che non c’era nulla più da
fare, che un destino s’era compiuto, qualcosa che, per la prima volta, era più
grande di lui, egli che s’era battuto pure contro Reagan e la sua
amministrazione, durante le ore drammatiche del caso Sigonella; ma esule,
sconfitto, quando le malattie incominciarono a piegarlo, quando la
stanchezza di un uomo, che la sua
partita con i contemporanei se l’era giocata e, in parte, vinta, fece la sua
comparsa sui rotocalchi italiani e sulle labbra degli opinionisti, quando,
forse perché aizzato o dopo aver ponderato bene il da farsi, il nostro popolo
aveva ormai decretato la sua fine politica. Dell’esule il rimorso per la nostra
classe politica, lo sconfitto impone una riflessione, che non può fermasi a
quel 20 gennaio, né alla solita arringa
pro o contro qualcuno. Dobbiamo giungere a rischiarare le fondamenta della nostra anima, della nostra
azione politica, dobbiamo, senza timore, chiederci di cosa, o di chi la nostra
democrazia oggi ha paura.
Che quella
classe politica, quegli uomini che hanno governato la patria per anni e anni,
con furbizia e talune volte con destrezza, con poco decoro, sempre deficienti di
entusiasmo e coraggio, quasi fosse diventata una routine, quasi essi, gli unti,
gli eletti, dovessero sacrificarsi per il bene comune, quasi che senza di loro
non ci fosse stato altro che il baratro della vagatio legis, che quegli uomini fossero giunti alla fine
della loro esperienza politica, non credo possano esserci dubbi. In fin dei
conti, questo tempo che viviamo, pur con tutte le sue lacune, riesce a
coinvolgervi, a carpire la nostra attenzione: se non fosse per un uso
sproporzionato del mezzo referendario, portata ormai usuale della cena
politica, il nostro indice di partecipazione
elettorale sarebbe in forte ascesa. Non è, dunque, un problema spiegarsi
e capire perché si sia giunti a quella fine, ma non riusciamo ancora a
comprendere le ragioni di come vi siamo giunti, del perché questa fine, di cui
tanto stiamo parlando, sia stata sancita con catene, gogne, morti. Soprattutto
questi, i morti. Dovremmo fare un bollettino di guerra, ricordare nomi e
cognomi, vicende umane, tragedie che non potrebbero mai essere esaurite nel
breve spazio concesso ad una penna di provincia, chiusa nel suo astuccio per
svariate settimane, per spandere poi inchiostro al momento giusto e, si augura,
con giusta misura.
I morti,
dicevamo. Di cosa, però, abbiamo talmente paura, da censurare qualsiasi tentativo
di “revisionismo” in merito alle vicende di quegli anni, i quali, per molti di
noi allora appena adolescenti, ricordano sirene, cronisti d’assalto, e una
storia, quella che studiavamo in aula, che d’un tratto si volle riscrivere in
nome del fango e della sporcizia morale di alcuni, questo, proprio questo, non
lo abbiamo detto. Ed è su questo, che il nostro popolo dovrebbe interrogarsi.
Perché ci volle il terzo potere, per anni colpevolmente silente, per avviare
una fase di ricambio del ceto politico, fase che ancora si stenta a definire
conclusa? Perché quella rabbia, perché quella terribile macchina d’odio venne
innescata?
Non si
negano le colpe, non si potrebbe, del resto. I danni al patrimonio italiano,
sia esso artistico, finanziario, industriale, sociale, sono così evidenti, che
non sarò certo io a spendere una sola parola, per difendere coloro che, lo
scempio che si consumava, non solo potevano vederlo dall’alto, ma, addirittura,
potevano evitarlo. Parlo d’altro, parlo del diritto di ciascuno di noi a
difendersi, senza preconcetti, senza bile traboccante dalla bocca di coloro,
che per officio e per deontologia professionale, “devono” mantenere un
contegno, senza atteggiarsi, senza vestire i panni dei giustizieri: ciò, a
priori, pure quando l’evidenzia sembrerebbe non ammettere appelli.
Perché
abbiamo cambiato(?) la nostra classe politica con l’odio e la persecuzione, e
non già con la flemma di chi sa quali siano le sue armi, e quale uso farne al
momento più opportuno, questo non riesco a capire. Avevamo l’opportunità di
pretendere delle spiegazioni. Invece, alla prima occasione, abbiamo gettato
alle ortiche questo nostro sacrosanto diritto, per soffocare le sia pur esili
voci che ci giungevano dal Palazzo, con i nostri disumani urli di vendetta.
Potevamo giudicare, ora saremo giudicati.
Craxi è
morto fuori patria. Altri ne restano. I Savoia, ad esempio. Caso, questo, reso
più vergognoso, dal fatto che sul loro l’esilio non è necessario, per scusarsi
con l’opinione pubblica, mettere le virgolette, e comunque imposto da altri,
che nessuno ha giudicato i Savoia colpevoli di alcunché (semmai si è decretata
la fine del regime monarchico, e anche su questo e sulla regolarità del
referendum del ’46 ci sarebbe da dire), e, addirittura, l’esilio doveva essere
“temporaneo”, come lo sono, del resto, tutte le disposizioni transitorie della
nostra costituzione. Quanti immaginano Emanuele Filiberto, il ragazzo
trentenne, che più di una volta abbiamo visto in televisione discutere di donne
e di calcio, oltre che, si capisce, del suo desiderio di ritornare nella terra
in cui hanno combattuto e regnato i suoi avi, pronto a rimpatronirsi, a costo
di una guerra civile, del posto usurpatogli? Quanti lo immaginano a cavallo, la
sciabola scintillante, mentre giuda una carica della cavalleria contro i carri
armati della repubblica?
I Savoia
evocano spettri, forse inconsci, ma tutt’altro che legati ad un passato
lontano. E, poi, per un popolo come il nostro, che già il poeta almeno due
secoli fà invitava allo studio della propria storia, quelle vicende sono ancora
avvolte nella nebbia dell’abbozzo: non abbiamo ancora incominciato a scrivere (
e non a ri-scrivere, come qualcuno vorrebbe demonizzare la voglia di “capirci”
di più) la nostra biografia, e sarebbe ora che incominciassimo a farlo. Così,
la casa regnante italiana rimane legata ai fatti e ai misfatti del regime
fascista, come se non fosse stato quell’arco parlamentare, che poi, a cose
fatte, saprà soltanto pavoneggiarsi del suo antifascismo, già allora troppo
litigioso per la prassi democratica, ad imporre, sulla scena politica, quel
Mussolini che passerà alla storia col nome di “duce”. Questo spettro rievocano
i flemmatici principi, che vivono ormai da un cinquantennio la loro storia
fuori dal suolo nazionale, e ogni volta che se ne parla, riemerge forte nelle
coscienze nostre: che abbiamo saputo fare di meglio? Questa è la paura che la
nostra repubblica si porta dietro, il fatto di non poter dimostrare di aver
saputo far di meglio. Se ci si riflette bene, altri sono morti per liberarci
dall’invasione dello straniero, una seconda volta, altri si sono sacrificati
col gagliardetto italiano sul petto in Russia o, come il maresciallo Salvo
D’Acquisto, davanti ad un plotone d’esecuzione. Questi cinquant’anni paiono,
soprattutto a quelli che si sono visti cadere la manna dal cielo senza mai
volgergli una sola preghiera, un vero fallimento, e la satira feroce dei
vignettisti, che ritraeva la Repubblica, il giorno del suo cinquantesimo anno, sotto
la tenda ad ossigeno, lascia ben pochi dubbi su quello che pensano italiani e
intellettuali. Al di là se ciò sia vero o no, se sia vero o no che questi anni
li abbiamo persi, che nulla gloria abbiamo saputo aggiungere a quelle già
conquistate dalla Patria, ed è personale opinione di colui che scrive, che non
tutto è stato un fallimento, anzi. La nostra cultura, il nostro senso del
sacrificio, la nostra abnegazione per il lavoro, hanno fatto dell’Italia uno dei
sette paesi più industrializzati del mondo, uno dei più validi concorrenti ad
un seggio permanente all’ONU e, quello di cui tutti dobbiamo andare fieri, uno
dei paesi, forse l’unico, che si batte con forza e decisione per una Europa
davvero unita, e non solo monetariamente: prova ne è il fatto, che quel seggio
tanto desiderato, nel consiglio della nazioni unite, potrebbe essere ceduto
dalla nostra Patria che è, a quella che un giorno sarà.
Dovremmo
andare fieri di tutto ciò, volgere il nostro sguardo agli esempi più
edificanti, ai militari italiani morti in missioni umanitarie, a quelli che
dedicavano le ore di riposo al volontariato, a quelli che saccheggiavano lo
spaccio per regalare caramelle e viveri ai bambini. Se il mondo militare è lo
specchio della società, come si è detto ultimamente, cosa desiderare di più? (
Per ovvietà, si preferiva non aggiungere, che si sono citati i casi più
esemplari di condotta umana e militare. Lasciamo a chi ne ha la competenza
giudicare coloro, se ce ne sono stati, che non già da soldati, ma da criminali
si sono comportati).
Questa è la
Patria di cui dovremmo andare fieri, anche se, purtroppo, non è l’unica. Due
facce della medesima medaglia. Ed è per coprire l’altra, quella più sporca, che
con Craxi non bisognava scendere a patti. A molti è andata bene: il popolo che
li ha ri-eletti, ha chiesto un solo colpevole, uno solo, per tutto quello che
era stato fatto prima, ed essi glielo hanno dato in pasto. Craxi, quindi,
doveva essere giudicato e, in un qualche modo, giustiziato. Perché l’ultimo
arrivato, e perché, fra gli i tanti colpevoli, la sua linea politica, quello
che più schiettamente politico v’era nella sua linea, ha finito col trionfare.
Il muro di Berlino gli ha dato ragione. Soprattutto, Craxi sapeva. Sapeva dei
suoi reati, sapeva con chi aveva consumato le sue, diciamo così, merendine, e
sapeva di chi, fingendo di non mangiare, le merendine se le faceva spedire
dall’estero, magari da un paese nemico dell’Italia e, quello che non si deve
scordare, della dignità dell’essere umano.
Il semplice
ed ingenuo militante comunista, il povero credulone dagli occhi pieni di ardore,
incredulo, ora, innanzi ai resti di quella che fu la ragione della sua vita,
quella ragione che egli difese anche a costo del proprio posto di lavoro, a
costo di sfidare pregiudizi, di non essere neanche assunto, il militante che,
da buon comunista, applaudiva le gerarchie sovietiche e non capiva perché,
nonostante si recasse ogni domenica a messa, si trovasse, d’un tratto e a causa
di una scomunica, fuori dalla Chiesa, questo militante che peccati può avere,
quali delitti può imputargli la Storia, se non il semplice vizio di forma,
l’essersi fatto indottrinare, senza mai opporre alle ragioni di Marx e dei
soviet quelle del cuore, della bontà, della mitezza. Senza mai aver anteposto
ai suoi bisogni, le ragioni degli altri.
Chi, però,
predicava dai pulpiti laici ai fedeli in stato adorante, poteva non sapere con
quale incenso benediva le folle astanti? E i tanti chierichetti del pontefice
Togliatti, egli che conosceva bene il gran dio, quel folle criminale di un
georgiano, con quali soldi gli compravano i paramenti? Con quale denaro la
grande chiesa comunista li mandava, pellegrini nel mondo, a predicare quella
cattiva novella, che è costata all’umanità quasi cento milioni di morti? Non
sapevano dei serafini del KGB, sempre così zelanti, nunzi di grandi “fortune”? E
sapevano, quelli che oggi si ritrovano nei vertici della nostra politica, la
provenienza di quelle “fortune”? Perché mai avrebbe dovuto, il Gran Fratello,
in quel paradiso terrestre che era l’Unione Sovietica, seppellire quegli angeli
traditori, quelle cattive entità, ree di tracotanza, ree di dubitare, con quel
poco che non era stato loro ancora sottratto, quando, in vita, non era concesso
avere più d’una vacca, e proprietà privata era una bestemmia, un’eresia?
Oggi, i
neo-post-ex comunisti, ipocriti farisei della peggior chiesa, si percuotono il
petto, giudicano e condannano i democristiani e i socialisti per aver intascato
soldi illeciti, i nazisti per aver sottratto, a coloro che da lì a qualche
istante sarebbe stati uccisi nei campi di sterminio, pure le protesi dentarie
d’oro od argento. Come se intascare danaro da un paese, che si reggeva sulla
sopraffazione e il terrore, fosse più dignitoso che taglieggiare gli
industriali italiani, come se i loro protettori fossero così stupidi, da
sotterrare in Siberia le proprie vittime, con ancora al collo, al polso, nelle
tasche, quel poco di proprietà che
rimaneva loro.
Questo
sapeva Craxi, e lo sapevano tutti, e tutti, ancora, sapevamo. Sappiamo, ancora
oggi. Chi erano i referenti nazionali di quei politicanti regionali, di quei
politicanti piccoli e medi, ai quali, in cambio di un centinaio di voti, gli
italiani chiedevano una “sistemazione” per figli, nipoti, sorelle, fratelli….?
Chi li proteggeva, a chi si aggrappavano coloro che concedevano invalidità
pensionistiche a dir poco inesistenti? Di chi erano devoti coloro che
cercavano, nel loro piccolo (si capisce), di incominciare a lavorare per non
lavorare più?
Questa è la
paura che gli italiani si portano dietro, queste le traballanti fondamenta
della nostra democrazia, della nostra repubblica, la paura che, dalla faccia
pulita del buon padre di famiglia, emerga, un giorno, quella sporca, sozza,
quella del corruttore, che, almeno una volta nella sua vita, egli fu.
I nostri
capri espiatori, colpevoli non meno di noi tutti, li abbiamo trovati, ce li
hanno dati, anzi.
Craxi
giaccia sepolto, e non se ne parli più.
Antonio
Giovanni Pesce
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