Un testo che porta la data del 25 novembre 1999. Non mi ci riconosco più, se non nella preminenza che si da all'esistenza umana nel cosmo.
Titolo apposto in questa ultima versione.
La
degenerazione di un concetto, di una vita o di che so altro, inizia,
sostanzialmente, quando alla sua natura spirituale, metafisica si preferisce
attribuire caratteri meno plastici, meno duttili, più rigidi, e questo perché
davanti alla multiforme essenza di un qualcosa, di un ente, si materializza una
tipica fobia umana che, dopo quella che genera in noi stessi il contatto con la
nostra anima, e quella generata dal contatto intellettuale che abbiamo col
nostro avvenire, è, certamente, una di quelle che rendono più movimentate le
nostre notti, di noi esseri umani, cioè, ed una di quelle che ha reso
incandescente il dibattito filosofico dalle origine sino ai giorni che viviamo:
la paura che il mondo, questo mondo, fatto di enti, questo mondo fatto di cose
e persone, soprattutto di persone, che si muovono, le une potenzialmente nel
campo d’esistenza delle altre, possa liquefarsi sotto le mani stesse di chi
crede di averlo in pugno, sotto gli occhi di vede – e vede realmente, di chi
sente – e sente realmente.
Il dibattito filosofico s’è
fatto incandescente perché tale, propriamente, è la natura del contendere: in
realtà, che cosa ci giochiamo? Il nostro dominio sul mondo, ecco cosa c’è in
palio, che in un certo qual modo ci
apparterrebbe comunque, anche se lo intendessimo come frutto del nostro
conoscere. Ma sarebbe un dominio falso, come dire: mi appartieni perché non ti
è concesso non appartenermi. La libertà che riconosciamo all’altro, e che
comunemente chiamiamo altruismo, allora, gioca un ruolo fondamentale, ma che ci
fa dimenticare quella, ugualmente giusta, che dobbiamo riconoscere a noi
stessi, tanto quanto è necessario per evitare l’altro eccesso, altrettanto
comune nella storia della filosofia: quello di credere il soggetto come
imprigionato da una fitta rete di rapporti tra le cose.
Alla fine è prevalsa la via
più comune, quella più facile: negare al soggetto la libertà, per riconoscerla
all’oggetto, a causa dell’alterità che vige nella vita, la quale, se è
all’origine di qualsiasi attività umana, perché genera in noi la meraviglia, è,
pure, nei suoi aspetti degenerativi, ciò che conferisce giustificazione
filosofica al giogo sotto il quale il mondo delle cose ci tiene, quanto di più
passivo possa esistere, quella trovata “sensazionale”, tramite la quale il
mondo si sottrae al nostro, di dominio, che, basterebbe ricordarlo, ci è stato
consegnato nella mani direttamente da quelle di Dio.
Non tutte le strade, però,
sono state battute, né s’è cercato veramente di risolvere il dilemma
soggetto-oggetto. Se si fosse guardato alla vita, che poi, nel bene come nel
male, è la più bella avventura che possa capitarci, probabilmente il suo faro
che irradia luce sulla nostra esistenza, avrebbe rischiarato gli angoli più bui
del problema, portando a galla dall’abisso delle tenebre quanto è di
fondamentale per il suo sviluppo, e cioè che, pur non negando il valore
dell’alterità, anzi, il soggetto rimane di vitale importanza, perché è proprio
questi che, con la propria esistenza, conferisce significato alla proposizione.
Infatti, che sarebbe mai una preposizione che manchi di soggetto, pur avendo
gli atri complimenti diretti e indiretti? se non un’accozzaglia di dati, senza
un qualcuno che li abbia posti in essere. Poi, si può discutere su Chi sia
stato.
L’uomo è l’unico soggetto
del mondo. I dati, che vengano dalle scienze esatte come da quelle delle spirito (e sarebbe ora
che questa distinzione scompaia dalle nostre discussioni), altro non sono che
brutalità, un calderone di alterità incoerente e indefinibile, che viene, ogni
giorno, plasmata dall’uomo. Questo non vuol dire che non siano altro dall’uomo,
anzi lo sono tanto da poter essere, nella loro particolarità, conosciuti con un
ampio margine di verosimiglianza. Vuol dire, solamente, che mancano di una
totalità, di una loro armonia: non habeant
sensum. Questo, unico protagonista dell’esistenza del soggetto e della sua
attività, è ciò che propriamente disvela le cose, e il mondo intero. E’ questo
senso che delinea la vera essenza dell’uomo, il quale, in quanto essere
interpretante, cioè plasmante, è vero artefix mundi.
Artefice, certo, ma non già
creatore, giacché egli non da l’esistenza alle singoli parti del tutto, né li
pone in essere, ma carpisce al mistero il senso di quelle parti. Noi
disveliamo, perché la potenza del nostro pensiero non si esaurisce, non perde
la propria vigoria.
Purtroppo, non sempre le
cose vanno bene. Si sa, si aggiunge sempre che è la vita – c’est la vie: le forze vengono meno, e ci si inabissa nel nulla,
nel non senso, nell’oblio del pensiero. Questo non sapersi rapportare con
l’essenza delle cose è, nella sua intima realtà, un accadimento, un rompere con
il vissuto, un fulmine a ciel sereno, una catastrofe inaspettata. Né discorso,
né poesia, che non è propriamente
teoresi, pur essendo questa anche un fare, un agire intellettuale, ma che è un
produrre, e dunque un “creare” intimo all’uomo, possono nulla, perché sul Nulla
dovrebbero ergersi, intorno Nulla. Questo accadimento, questo sfuggire del
senso di una cosa, questo non interpretare è la cavità dentro la quale viene,
allora, rinchiuso il pensiero: questi sente come un decadere della propria
potenza, e s’accorge, ormai morente, di spegnersi non contro le tempeste
dell’alterità, ché anzi, opponendosi, rinvigorirebbero il pensiero medesimo, ma
contro un Nulla, contro le tenebre, contro la cecità dell’intelletto. Davanti
all’accadimento, a questo confondersi del soggetto e dell’oggetto, davanti a
questa osmosi mal riuscita, il soggetto si salva rendendosi maschera, soggetto
della propria oggettivazione. Decade ogni forza, e ci si accontenta di poco. Si
diviene maschera, senza una vera oggettività, perché la maschera è un oggetto
debole, un soggetto debole, è un pensiero che non si invigorisce, è una forza
che non smuove, è un canto che non è melodia.
Si diviene, si diceva,
maschera, qualcosa che è pur sé impropriamente, qualcosa che può anche non
essere, certo, ma che non può non dirsi che è: s’è scritto impropriamente, il che non è sinonimo di inautentico, anzi. La
maschera è autenticità, essa è, è esistenza che è tale, ma non propria
dell’uomo. Può essere, non si dubita di tale verità, esistenza transitoria
dell’attore, che recita su un palcoscenico allestito in parrocchia o innanzi
allo specchio, ma non può essere una esistenza propria dell’uomo, semmai una sua mistificazione.
E’ un rito pagano, un eterno
ritorno di vita, come se sul letto d’un fiume vi scorressero le medesime acque
da sempre, levigherebbero comunque i sassi del fondale, ma la vita vi morirebbe
a causa della putredine. Un rito, però porta in sé qualcosa di primordiale:
nell’annullamento dell’intima natura dell’esistente ( di annullamento è lecito
parlare, non di morte, perché non muore, ma viene come messa da parte), si
scopre l’ebbrezza del lasciarsi trasportare, del venire meno a se stessi: non
pesi, non aspirazioni, né fastidi di vita. Niente.
[ Ben presto, però, insorge il sentimento per il
reale,........]
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