Articolo dell'agosto 1999 per il Corriere del Sud.
di Antonio Giovanni Pesce - Che il
passato ritorni, questo non ci è dato
sapere. Certo è che il presente difficilmente dimentica, e alcune parole, che
avremmo voluto non sentire più(in certi contesti), ricompaiono, dall’abisso
della storia, come bestie fameliche, pronte a divorarci quel poco di sonno che
i tempi duri ci concedono.
Una volta
ancora la parola “Serbia”: ieri, 1914, popolo che lotta per una sua dignità,
oggi, 1999, manipolo di nazionalisti irriducibili che, disprezzando qualsiasi
ambasceria, massacra per la propria civiltà, che vede in pericolo – e non a
torto – dagli “yenkee” americani e dai musulmani albanesi. Ieri come oggi:
1914, 1936, 1999, Balcani, terra di fuoco, crogiolo di lingue, culture,
religioni, tenute insieme per decenni dal terrore che incuteva il regime del
maresciallo Tito e dalla fame del sistema comunista, e divisesi, in pochi anni,
per ricercare un anelito di libertà, quella libertà per anni negata e sempre
agognata.
Oggi come
ieri. Ed è spaventoso ammetterlo, ma lo scenario che ci troviamo davanti,
mentre da poco si sono conclusi gli
attacchi mattutini della Nato contro “obiettivi militari serbi”, è, forse, il
peggiore che all’Europa si sia prospettato dalla fine della seconda guerra
mondiale. Difficile negarlo, e quando per strada respiri l’aria di una tensione
malcelata, di vecchi che non vogliono rivivere ciò che è (per loro) già
passato, e di giovani che non vogliono vivere ciò che non è (per loro) nemmeno
lontanamente da annoverarsi tra le
possibilità del futuro, allora è impossibile negare la realtà, brutale come si
mostra, oggi 24 marzo 1999, nemmeno otto mesi prima del Giubileo. La battaglia
del Cossovo sarà una cicatrice per l’Europa, e se l’Iddio non illuminerà
qualche diplomatico di buona coscienza, difficilmente risanerà resto. Serbi e
albanesi si giocano, in quella piccola regione divenuta, per forza di cose, una
spina nel fianco della Comunità Europea e mondiale, la loro storia, la loro
stessa essenza di popolo. Hanno in comune soltanto una data: il XIV secolo dopo
Cristo. Poi, nient’altro. Solo contrapposizioni: due imperi, quello serbo di
Stefano IX Dusan, che nel 1354 aveva inglobato la Macedonia, l’Albania e
l’Epiro, e l’impero ottomano, che a quella data (ancora una data in comune)
aveva conquistato le città bizantine di Brussa e Nicea, espulso i bizantini
dall’Asia Minore e conquistato Gallipoli, al di là dello stretto dei
Dardanelli. Due imperi, due espansioni che dovevano scontrarsi, prima o poi.
Due religioni già in contrasto, per via delle città ortodosse cadute in mano
“nemica”. E’ il 28 giugno 1389, località “piano dei merli”, quando i serbi
subiscono quella dura sconfitta che, ancora oggi, viene menzionata da chi
comanda in Serbia, da chi scrive in serbo, da chi, la vita quotidiana, la vive
in quella terra a cui guardano, col cuore in mano, in queste ore tutte le
nazioni del mondo.
Poi, sembra
che il tempo si sia fermato allora. Soltanto la rabbia per una cuocente
sconfitta, l’amarezza per la perdita di tante conquiste e della propria
indipendenza. Una sola speranza: potersi riprendere, al più presto, quanto più
possibile. L’impero Ottomano, però, vive a lungo, molto a lungo: mezzo
millennio e più. Sarà il primo decennio del novecento a ridare ai serbi la
propria libertà e quella terra “maledetta”, dopo lo smembramento dell’impero
ottomano dovuto alla sconfitta degli imperi centrali nel primo conflitto
bellico. Nascerà allora lo stato di Jugoslavia. Quando morirà, tra gli eccidi
che conosciamo tutti, la “terra maledetta” sarà privata di quello statuto
speciale che, per anni e anni, aveva accontentato un po’ tutti. Da quel
momento, è il 1989, i vecchi odio e rancori risorgeranno, spettri malefici di
questa Europa del duemila, che ha cercato (non si sa , però, quanto ci abbia
creduto) di ripianare i contrasti a Rambouillet, da cui il famoso trattato:
disarmo dell’UCK, l’esercito di liberazione dei cossovari, e rinuncia di questi
all’indipendenza, in cambia di una ampia autonomia. Il trattato, a dire il
vero, già veniva tardi, almeno per quei poveri disgraziati messi a un metro e
mezzo di profondità, in tombe comuni, dalla polizia speciale serba, che Slobodan
Milosevic, padre padrone e artefice della “rinascita serba”, ha sguinzagliato a
caccia di ribelli, poi resistenze, prima da parte albanese, alle quali sono
seguite quelle di parte serba. Infine, il rifiuto di Milosevic ad accogliere
sul proprio territorio un contingente di “interposizione” Nato, che facesse
rispettare la pace. Il resto, non è necessario ricordarlo. Gli aerei che
decollano e quella cartina geografica, che mostra il deposito di quei missili,
che gli aerei non hanno più, quando ritornano alla base, così vicino all’Italia
e così addentrato nel seno dell’Europa, sono immagini che non si possono
dimenticare.
Una domanda si
fa largo, però, in queste ore tra la popolazione mondiale: era indispensabile
arrivare a tanto? Non si può rispondere con esattezza, ogni opinione potrà
divenire disumana in futuro, quando molti saranno i particolari divulgati sui
negoziati e sulla guerra di questi giorni. Meglio non esprimersi. Non si può,
però, non chiedersi se paghi di più l’indifferenza di un bieco pacifismo da
baraccone, ideologizzato come se ancora certi “muri” fossero in piedi, o atti
estremi, che devono, tuttavia, rientrare. Ferma deve rimanere, a detta di colui
che scrive, l’intenzione di ridare fiato e, ancor più, voce alla diplomazia, alla politica,
come non bisogna farsi illusioni: chi rischia soldi, mezzi e uomini, non lo fa
certo per amore caritatevole. Però, ci sono soglie di tollerabilità che non
possono essere oltrepassate, non può chiudersi a riccio, pensando a un futuro
lontano, mentre migliaia di diseredati rischiano la vita. Si calcola che
duecentocinquanta mila siano i profughi cossovari cacciati dai loro villaggi e
che, in questi giorni, vivono di stenti nei boschi di quella terra martoriata a
sud della Serbia.
Siamo in
guerra, piaccia o no. Ma rimangono grosse sacche di speranza, dove il rancore e
l’odio non è riuscito ancora ad entrare. Il fatto che la Serbia, in queste ore,
interpreti il nostro ruolo come semplicemente difensivo, da un lato, e di
formale rispetto dell’Alleanza Atlantica (ricordiamo che aerei italiani non
sono stati ancora utilizzati nei combattimenti) dall’altro, e lo dimostra il
fatto che le relazioni diplomatiche con noi non sono state rotte, è un’occasione per la nostra diplomazia e, in
generale, per le sorti dell’Europa che la nostra Patria non può farsi sfuggire.
La nostra nazione può rappresentare un’ottima porta dalla quale far uscire i
fantasmi del passato. Bisogna provarci e abbozzare un accordo, che sia, come a
detto il Santo Pontefice, “rispettoso della storia” e della dignità di ogni
belligerante.
Non sarà
facile, ma abbiamo il dovere morale di tentare. Senza pregiudizio, ma nel
rispetto della dignità umana.
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