Quando questo articolo apparve, nel febbario del 2004, in un foglio del paese in cui vivo (Motta S. Anastasia, Catania), in molti mi accusarono di bigottismo, nonché di aver generalizzato molto. A distanza di anni, le medesime cose sono state scritte sui giornali radical chic di questa nazione in decadenza. Passano le mode, ma non gli italiani pronti ad intrupparvisi.
di Antonio Giovanni Pesce - Chiunque abbia studiato un po’, spesso si sarà
trovato a fare i conti con i barbari. Sì, quei signori che scendevano dalle
steppe delle Germania, per far man bassa dei tesori e della civiltà romana.
Ammetto che, con i tempi che corrono, magari si è più informati su come fare la
velina (quale movenze siano più attraenti), su quale pezzo scimmiottare davanti
ad una platea (quanti Gasmann ha prodotto la nostra civiltà!) o, più realisticamente,
a chi portare la borsa per avere il tanto agognato posto fisso. Ma noi ci
proviamo lo stesso a parlare dei barbari. Soprattutto perché, ormai, il
concetto di barbaro è diventato assai democratico: non servono studi storici
per pochi eletti, perché il barbaro ci passa sotto la finestra, magari ce lo abbiamo come vicino di porta….
magari dorme nella stanza accanto, e porta il nostro stesso cognome. E
quindici, sedici anni fa un dottore in camice verde ce l’ha presentato come
nostro figlio, nostro fratello, nostro nipote……
Non ci si crede, ma la nostra civiltà, disse una
volta un tale (non lo cito, altrimenti mi danno del filosofo), è continuamente
invasa da barbari. Ed una invasione che costa milioni ogni anno: vetri rotti,
spinelli e canne, facciate di interi fabbricati imbrattate, furti. E che si porta
dietro strascichi di dolore impensabili.
Il nostro paese, in merito, offre materiale
abbondante.
Quello che c’è di peggio, nei barbari nostrani, è
che non si riconoscono come tali. Quando sai di non sapere, allora qualche
speranza di migliorarti ce l’hai. Ma se navighi al buio, come ti raccapezzi?
Il mottese barbaro ha mediamente 16 anni, ma ne
dimostra almeno 40. Figlio di stereotipi andati a male già negli anni ’60, vive
in un mondo tutto suo, cercando ogni giorno di trasformare la stupidità e il
conformismo in trasgressione. E’ il pioniere di un mondo nuovo, nel quale i più
forti, i più violenti, i più ricchi avranno sempre la meglio. Crede di poter
pagare tutto con i soldi del padre, e qualche volta paga i temi che ragazzi
meno fortunati di lui (almeno per oggi) gli passano per farlo andare avanti,
stentatamente come sempre. Nella vana speranza che qualche santo del nuovo
paradiso (al muovo mondo corrisponde un paradiso nuovo) gli procuri un posto di
lavoro, magari nella tanto agognata Sigonella. Braccia sottratte
all’agricoltura, che di certo lo raddrizzerebbe col suo carico di fatica e di
sudore, il barbaro mottese va in giro la sera tardi a sporcare di vernice il
paese, e per giustificarsi chiama arte i suoi simboli e le sue scritte, alcune
addirittura di carattere satanico. Vernice, ad andar bene. Perché, alle volte,
lo vedi tornare a casa dal rione sbronzo da far paura, e magari, così, se gli
passa per la testa, si mette a spaccarti il parabrezza dell’auto o il vetro del
portone, o a sfasciarti l’orticello che hai davanti la porta. Così, senza
motivo alcuno. Non sono mala cristiani,
perché non perseguono un obiettivo proprio, egoistico quanto si vuole.
Perseguono il Nulla, affascinati dal Nulla, cantori del Nulla. Non sono più
esseri umani: sono corpi vegetanti che si muovono nello spazio e nel tempo.
Dietro ogni barbaro, però, c’è una steppa. La steppa
dei nostri barbari sono i genitori, che prima di loro hanno sperimentato il
fallimento esistenziale, e da allora, magari negandolo a se stessi, annaspano
per non affondare. Falliti come i figli che hanno generato, indicano alla prole
la strada del mascheramento, tanto più accentuato quanto maggiore è la paura di
porsi la domanda definitiva: “se morissi ora, che ne sarebbe stato della mia
vita?”. Non sono ricchi, ma vantano ricchezze da nababbi , davanti al
cappuccino il mattino o la sera in pizzeria. Si muovono anche loro, come i
figli, in branco: seguire la moda del momento (la casa al mare, quella in
montagna, quella in campagna, la gita, la settimana bianca et cetera) è l’unico
modo per non sentirsi soli. Perché da soli, nella solitudine, l’anima fa troppo
rumore. E quando con le forze non ci arrivano più, o sono troppo realisti per
mettersi a realizzare vecchi sogni di gioventù, sfogano le loro frustrazioni
suoi figli, che diventano, poverini, schiavi delle follie (il più delle volte)
materne: non c’è più tempo per la scuola o per il catechismo, ma per cercare di
raggiungere vette, che anche senza tante costrizioni verrebbero raggiunte
comunque, se solo si disponesse di un po’ di genio. Che non si ha. E dopo
qualche hanno, i giovani Beethoven muoiono con il loro pianoforte sotto una spessa
coltre di polvere. E nel fondo delle piscine giacciono i sogni dell’oro olimpico.
L’Indifferenza
viene fatta passare come Libertà, ai figli viene addossato il peso delle
responsabilità, di una maturità ancora acerba, solo per continuare a dedicarsi
al lavoro e al (presunto) successo. E Dio, che è per loro solo il Dio dei
sacramenti e dei funerali, viene tirato in ballo, quando nessuno si spiega il
perché….
Perché è accaduto? Perché è successo?
Irrompono, con tutta la loro severità, domande
pesanti come macigni, che scacciano uomini e donne ormai col cuore squarciato. Allora
la vita ricomincia da zero, l'esistenza davanti al dolore e al dramma riprende
fiato, e magari i più navigati latin
lovers o potentati mottesi si ritrovano, di nuovo, a fare i conti con
domande, alle quali nessuno potrà rispondere al loro posto. Neanche se pagati a
peso d'oro.
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