di Antonio G. Pesce – Erano le 18.55, quando Manfredi Zammataro
twittava: «consiglio comunale di #Catania fissato oggi per le 19. Alle
ore 18.50 in aula siamo appena in cinque su 45...#quattrogatti
#politica». Quattro? No, tredici i consiglieri presenti alla seduta di
prosecuzione di ieri sera. Sempre pochi. Il presidente, Marco Consoli
– l’aria dimessa di chi sembra quasi lì per gettare la spugna – apre la
seduta, e la chiude manco 40 secondi dopo. Mancanza di numero legale.
Lo capisco: Catania può attendere,
c’è Palermo (non città, ma capoluogo di regione) che chiama. Le elezioni
incombono. La battaglia è serrata, perché molti si sono candidati, e
tutti si credono capaci di rappresentare un popolo stanco (il peggiore
che possa capitare ai tanti venditori di fumo). Quindi, le squadre si
muovono: compatti legionari, che pensano di aver in tasca la fiducia
incondizionata dello scimunito x percento che li ha votati alle
comunali. E poi – me lo scriveva su Facebook una mia cugina – il mare di
settembre è qualcosa di meraviglioso.
L’anno scorso lo scrivemmo fino alla
noia. Che Catania, cioè, ha bisogno di una classe politica che non si
affaccendi in altre faccende che in quelle della città. Pubblicammo
perfino i dati sulle presenze. Quando la cosa ebbe una certa eco, si
presentò un mazzo di consiglieri (2 su 3 per l’esattezza: mediamente 30 a
seduta), molti tra i quali a rimproverare il “populismo” (manco sanno
che cosa sia) dei mezzi di informazione, e a sprecare fiato con la
solita cantilena della “politica fatta tra la gente” e bla bla bla. Non è
servito a niente. Esperienza vuole che, finita la festa dell’estate,
delle elezioni qui e là, delle assemblee di partito e i mal di pancia
per le poltrone mancate, si torni al consiglio, quanto meno per far
numero. Lascio immaginare con quale spirito.
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