Articolo pubblicato sul Corriere del Sud nella seconda metà del 1999. Nulla di originale.
La guerra del Cossovo e le immagini, nella loro
brutale verità, che ci giungono dalla cittadina di Pek, nel territorio della
quale i nostri militari stanno rinvenendo, ad uno ad uno, i tasselli di
quell’immenso scenario di morte e distruzione, opera di menti insane che
vestono un’ideologia e una divisa perché, senza queste, non saprebbero bene chi
siano, riaprono cicatrici mai bene sanate.
E non solo. Perché le posizioni di certa cultura
serbo-russa (ma, si faccia attenzione, una piccolissima parte delle intelligenze
di quei paesi) sembrano richiamare, per l’uso di parole come “terra”, “sangue”,
“istinto ed eroismo”, alcune posizioni assunte dalla cultura tedesca
dall’inizio del secolo fino alla sua metà,
ma soprattutto durante la
“vigilia” dei due conflitti mondiali, e un discorso, quello su kultur-zivilisation, che ha visto,
confrontarsi due modi di essere, latino o nordico, di immaginare il futuro, di
costruire il presente. E, soprattutto, ha visto coinvolta tutta l’intelligenza
europea, i migliori intellettuali, nei momenti più tragici della storia del
nostro continente.
La contrapposizione dei due termini non è presente
nelle lingue latine. Se la cultura, richiamandosi esplicitamente alla paideia greca e all’humanitas latina, significa l’acquisizione di conoscenze e
comportamenti da parte dell’uomo, che lo avvicinino alla sua perfetta
realizzazione, civilisation, nel settecento francese, indicava le buone maniere
di comportamento di un individuo, soprattutto in società. Ma formazione, educazione indicano un
processo che, per molti versi, si compie con la coercizione delle inclinazioni
primitive dell’uomo, dei suoi “valori” e comportamenti istintuali, e se già
Rousseau guarda malinconicamente all’uomo “selvaggio”, la critica più accesa al
concetto di civilisation viene dall’illuminismo tedesco e, successivamente, da
tutto il mondo culturale germanico, da Kant fino a Nietzsche, e oltre.
Si forma così lo iato tra Kultur e Zivilisation, il
primo termine, civiltà, indicante le inclinazioni insite nell’uomo, in quanto
individuo e appartenente ad una determinata stirpe, l’uomo che è, e il secondo,
cultura - civilizzazione, la formazione, l’educazione, l’uomo che diviene, e
quella frattura, che non sempre si evince dagli studi letterari dei nostri
giorni, tra Francia e Germania, due blocchi culturali ancor prima che
geografici.
Due posizioni differenti, due modi differenti di porsi
davanti al più sanguinoso di tutti i conflitti, la Grande Guerra: la tragedia
dell’umanità, anche se affrontata, come dimostreremo, con caparbietà, da un
lato, e la lucida rassegnazione o l’entusiastica accettazione, dall’altro.
La Germania, quando l’impero guglielmino decise di
dare “l’assalto al potere mondiale”, per dirlo con le parole del Fischer[1], si
trovò, forse suo malgrado, ad affrontare una guerra con l’odiata Francia, la
quale ricordava bene l’umiliazione di Versailles del 1870, con uno spirito ben
diverso della latina nemica: ricorda von Krochov, in un suo volume edito dal
Mulino qualche hanno fa, come, allo scoppio del primo conflitto mondiale,
furono scritte un milione di poesie, pro e contro la guerra, ma chiede
retoricamente: “…quanto poche erano fra queste quelle che si schieravano contro
la catastrofe?”[2]. E, in effetti, nel mondo
culturale tedesco, come in quello politico, vi fu quasi un richiamo cieco,
brutale, viscerale verso la guerra, se anche Thomas Mann, il genio che portò
alla luce La montagna incantata e La morte a Venezia, scrisse Considerazioni di un impolitico, opera stesa
fra il 1915 e il ‘18, nelle cui pagine si può leggere che “…la differenza fra spirito e politica comporta quelle fra cultura e
civilizzazione” e, più avanti, si può leggere: “la “germanicità” è cultura, anima, libertà, arte e non civilizzazione,
società, diritto di voto, letteratura.” [3] Sono parole
pesanti, come, del resto, quelle di Ernst Junger, morto nel 1998 all’età di 102
anni, autore de L’Operaio, quando afferma che non è importante sapere per qual
ragione si combatta, purché lo si faccia. Ed è proprio Junger che bisogna
citare, per trattare specificatamente il ruolo avuto (grosso modo) dalle
“intelligenze” dei due acerrimi nemici nell’approccio, prima, e nella
comprensione, poi, dei meccanismi della guerra. Non solo il tedesco, però, ma
pure il francese Luois-Ferdinand Céline, pseudonimo con il quale il dottor
Destouches firmò quella stupefacente opera che è il Voyage au bout de la nuit[4], un
romanzo “postumo” agli eventi (1929), edito, per quanto ne sappia colui che
scrive, dalla Corbaccio.
Junger è, come possono esserlo solo i grandi, a un
tempo la regola e l’eccezione, nel panorama culturale tedesco: slancio eroico
vitale, contro la paura e la viltà piccolo-borghese, ma una lucidità di
descrizione serena e mai pedante. “In Stahlgewittern”, edito in Italia da
Guanda, col titolo di “Nelle tempeste d’Acciaio”[5],
Junger racconta gli eventi che lo videro coinvolto nelle battaglie delle Somme,
ma se Céline mostra il lato più oscuro della guerra, con un pathos e uno stile
vibrante che la dicono lunga sullo stato d’animo con il quale uscì fuori dal
conflitto, pur avendolo combattuto per un solo anno, Junger, invece, mostra
fierezza e decisione, e, pur non negando mai la paura, dichiarò fino a qualche
mese prima della morte di aver avuto la forza di vincerla. Possedeva ancora il
suo elmetto, con un buco di entrata e uno di uscita di un proiettile che solo
Iddio volle innocuo. Se la guerra, dunque, Junger l’affrontò senza rimpianti e
con eroismo, non dimenticò mai di descriverla per quello che è, ormai: una
grossa concentrazione di materiali,
mitragliatrici, fucili, bombe.
Céline e Junger: entrambi eroi, il primo insignito di
medaglia e di copertina dell’Illustré
National per una missione di collegamento, nella quale rimarrà ferito, il
secondo dell’Ordre pour le mérite, la
più alta onorificenza tedesca, e di quella fama, in patria, che non
l’abbandonerà mai più; entrambi uomini, nel macello solitario di quella guerra,
della quale crudeltà pure il nostro Ungaretti lascia pagine memorabili; ma
diversi, diversi assai, per come hanno sentito dentro quel “viaggio al termine
della notte” che fu la guerra, per come hanno vissuto le loro esistenze nel ben
mezzo di “quelle tempeste d’acciaio” che furono gli eventi bellici. C’è in
Céline una satira agli eventi bellici, che non si trova in Junger, il quale,
invece, accetta la dura realtà che vive, pur non riconoscendovi più nessun
valore eroico.
La coscienza della cultura francese contro l’istinto
della civiltà tedesca hanno dato luogo a due diverse interpretazioni del
medesimo fatto, cosa che, pur se con qualche eccezione fra gli intellettuali
serbo-russi, non si è verificata per quanto riguarda il conflitto nel Cossovo
nei rapporti fra la cultura più prettamente europea e quella slava.. Ma se
Mario Luzi, famoso poeta italiano, avvilito, credeva in un occidente, alla fine
del secolo, fuori dalla logica della guerra e delle persecuzioni contro i
popoli, con un articolo su “La
Repubblica”, Evgenij Evtusenko fa discutere. La posizione degli intellettuali
europei e non sulla guerra del Cossovo è stata chiara, ma meno sembra esserlo
stata quella dei tanti apparati che fanno capo al fattore P, “propaganda”– per restare in tema di primo conflitto
mondiale - almeno, per quanto afferma il
famoso poeta russo, il quale, fra l’altro, scrive che Russia e America “
[vedono] attraverso la televisione due guerre diverse. La guerra è una sola”.
Una volta ancora due immagini differenti per un solo
conflitto? Ma se ieri per posizioni intellettuali, oggi per cosa?
Antonio Giovanni
Pesce.
[1] F. FISCHER, Assalto al
potere mondiale, Torino, Einaudi, 1973.
[2] C. von KROCHOV, Il dramma
di una nazione. Germania 1890-1990, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 130.
[3] T. MANN, Considerazioni di
un impolitico, Bari, De donato, 1977, pp. 225.
[4] L. F. CELINE, Viaggio al
termine della notte, Milano, Corbaccio 1992.
[5] E. JUNGER, Nelle tempeste
d’acciaio, Parma, Guanda, 1995.
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