di Antonio G. Pesce -
Inutile girarci attorno: la generazione di chi sta scrivendo queste
righe (spero in un linguaggio non molto forbito, ma mi si permetta di
mettere qua e là un congiuntivo) ha un futuro da ricomprare. Venduto
sulle bancherelle del mercato internazionale da corrotti sensali. Il
fallimento della classe politica, italiana e sicula, sta tutto qui.
Tutti corrotti i politici nostrani? No, però come una rondine non fa
primavera, uno sparuto gruppetto di persone perbene non può migliorare
le sorti di una nazione, perché l’onestà ha più problemi a riunirsi che
non il malaffare.
Salvatore Cuffaro, detto Totò Vasa
Vasa, è l’emblema di questo fallimento. Come figlio erede di un sistema,
che può essere giudicato politicamente, e come artefice del suo
proseguimento, condannato con sentenza passata in giudicato da un
tribunale di questa Repubblica. L’altro giorno gli è stato accordato un
permesso speciale per andare a trovare il padre gravemente malato.
L’unico padre per il quale Cuffaro dovrebbe provare amore e pietà, anche
perché l’unico ad aver pensato per lui un futuro diverso. Come ogni
genitore per il proprio figlio. All’uscita dal carcere, uno sparuto
gruppetto di persone ad applaudirlo. C’è sempre qualche riconoscente che
non fa invecchiare la gratitudine, memore di essere diventato qualcuno
grazie a qualcun altro, ché senza sarebbe ancora nessuno. Poi c’è anche
l’amicizia vera, che emerge perfino dalla cloaca delle incomprensioni
politiche, quando l’amico ha bisogno di consolazione. Quello che
colpisce chi non si rassegna alla schizofrenia di un sistema di valori
non fondati (che mutano al mutare delle mode), è la violenza con cui si è
commentata la vicenda, l’ironia con cui si è accolto il corpo di un
colpevole ridotto ormai ad essere l’ombra del retore che processava in
televisione Giovanni Falcone.
Conosciamo (e abbiamo avuto modo di
sperimentare) la rogna dell’ideologismo, la riduzione del mondo, con
tutte le proprie specificità (anche errate, di cattivo gusto e immorali
quanto si vuole), alla totalità del verbo modaiolo, che muta linee
politiche e modelli etici come i politici la casacca. Ma qui non si
parla di gruppetti fanatici, organizzati per bile elettorale o per
vanità commerciale attorno a falliti maestri (e, soltanto per non essere
sessisti, arcigne maestre), il cui modello di società ha prodotto lo
scempio che ora, d’un tratto e senza alcuna giustificazione, aborriscono
come la scabbia. Si tratta piuttosto del comodo borghesuccio, in
pantofole e pc, che taglierebbe la testa al mondo intero, esclusi se
stesso e parenti. Non è in gioco una frase, la contrapposizione
dialettica di opinioni, che volutamente si disconosco a vicenda. Quelle
foto, commentate dall’odio, di un già potente, ormai tutto ossa e pelle,
ci raccontano dell’arcano mistero di un fallimento, dello scacco che
ogni esistenza può subire nonostante non ne parlino più perfino preti e
filosofi. Non so se sia notizia o no tutto questo. Purtroppo, i
pennivendoli di periferia non riescono a trasformare la società, perché
non hanno la forza e la vivacità delle idee à la page, che condurranno
dritto al nuovo avvenire. Rimango però perplesso davanti a folle che,
seppur con tutte le ragioni, non sanno provare per il colpevole altra
pietà che quella rituale dei generici diritti umani, citati davanti alla
grande stampa. Il colpevole che merita la redenzione è sempre quello
senza volto, l’astratto oggetto delle belle maniere del pensiero. Essere
pietosi verso chi non si conosce è facile: il male che ha commesso non
lo vediamo, e così il sangue della vittima non grida vendetta. Ma quando
l’errore consuma la vita stessa, chi di noi può scagliare la pietra
senza aver visto la trave che gli perfora l’occhio?
Si è fatto tanto per dare alla
civiltà un diritto senza umori. La stessa scrittura di un codice vuole
attenuare il peso del vissuto del giudice. Ed ecco perché una sentenza
di tribunale può sussistere ed essere legittima, senza e anzi proprio
perché non accompagnata da rancori. Con la condanna Cuffaro ha portato
negli inferi anche il suo potere e la vanagloria di un apparato. Dai
quali può risorgere migliore di ogni altro giudice, togato o in
vestaglia, anche grazie alla pena.
Temo questo mondo di anime belle,
che non sanno più vedere l’abisso che si cela in ciascun essere umano, e
passano sopra i corpi e la loro miseria con la noncuranza con cui, una
volta, se ne facevano saponette. Se il dolore dell’uomo di Nazareth non
dice loro più nulla, abbiano almeno un po’ di venerazione per quella
Costituzione che intronizzano come divinità. O forse un intero mondo
umano è al tramonto, eclissato da uno gnosticismo puritano?
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