Titolo del novembre 2012.
di Antonio Giovanni Pesce - Qualche tempo fa, Massimo D’Alema, in una intervista divenuta
libro, aveva di che parlare sulla normalità del nostro paese, senza mai
immaginare che, da lì a qualche anno, poco più o poco meno, quella stessa
normalità avrebbe fagocitato le sue ambizioni di divenire, a tutti gli effetti,
il leader indiscusso di uno schieramento composito. Che ne avesse la stoffa, di
questo nessuno ne ha mai dubitato: un vaso di acciaio fine, ben temprato nella
fornace delle ideologie e della guerra fredda, in viaggio verso una
legittimazione politica ( che un
politico di razza, quale egli è, sa
di poter trovare solo nell’esercizio del potere), dopo il fallimento del
comunismo italiano e non, in compagnia di vasi d’argilla, vuoti, che solo i
ricettacoli della storia avrebbero potuto riempire.
La stoffa, D’Alema, l’ha sempre avuta, quello che gli è
mancato per molto tempo sono state le opportunità di tagliarla, cucirla per
benino, e mettersi quell’abito, che prima di lui tutto il popolo di sinistra si
aspettava indossassero i vari e, in alcuni casi, improvvisati segretari del
PCI: neanche Occhetto, che improvvisato politico non lo è mai stato, e che ha
segnato la storia del nostro paese forse più e meglio di quel Togliatti, a cui,
come ministro della giustizia nell’immediato dopoguerra, si deve la parola fine
scritta ai processi di epurazione contro gli ultimi resti del passato regime
fascista, neanche lui è riuscito a trovare aperta la porta del guardaroba, nel
quale indossare la sua toga di primo ministro (post-comunista) di una nazione,
l’Italia, membro NATO di importanza rilevante, ma primo paese in Occidente in
fatto di preferenze elettorali del partito comunista nazionale. Non c’è
riuscito, perché si aspettava che l’investitura gli cadesse come manna dal
cielo. D’Alema ha aspettato, con calma ha tessuto la sua tela, al momento
giusto ha fatto tacere la sua coscienza, quella stessa coscienza che gli aveva
fatto dire, due anni prima, che mai, senza consenso popolare, sarebbe andato al
governo, ed è riuscito a coalizzare gli
interessi di alcuni partiti, che ormai da anni annaspano nei mari mossi del
nostro scenario politico.
Parrebbe un requiem per il leader massimo e, invece, lo è per
la sinistra. Da Togliatti a D’Alema, il PCI ha lottato e sudato per conquistarsi la propria legittimazione:
si sono mossi sullo scacchiere nazionale ed internazionale con capacità davvero
sorprendenti, ridondanti discorsi e ampollose dichiarazioni di intenti hanno
coperto le reali intenzioni dell’apparato che conta, le tattiche più
rivoluzionarie hanno placato la sete di rivoluzione delle folle, come le più
fine strategie moderate sono state servite per placare quella di potere dei
capoccia. Ma hanno sempre dovuto pagare lo scotto della loro viltà: se uno il
coraggio non c’è l’ha non se lo può dare. E non si possono nemmeno creare dal
nulla i soldi con i quali mantenere un così vasto apparato. Alta scuola di
specializzazione politica, il PCI è stato uno stato nello stato: carriere,
encomi e promozioni, declassamenti.
Uno stato potente, dunque, capace di mobilitare come
nessun’altra associazione o movimento avrebbe potuto mai fare, e come mai
riuscirà a fare la DC, che pure contava un più alto numero di elettori. Un
gigante, ma coi piedi d’argilla: i dirigenti sapevano quanto limitata fosse la
loro libertà d’azione, come scatti repentini in avanti e subitanee ritirate
dovessero alternarsi per forza di cose. Troppo invischiato negli affari della
nazione, tanto da guardare con ansietà a qualsiasi evento (il ’68 o il
terrorismo) che potesse portare ad una alterazione degli equilibri già
raggiunti, almeno in ambito regionale, eppure altrettanto coinvolto nei
meccanismi dell’ideologia comunista, da non poter far altro che far sua la
dottrina della doppia verità, muovendosi tra ambiguità e mistificazione: suoi
non erano i danari con i quali alimentare un così ampio organismo, ma gli
appartenevano in toto tutto quanto un partito, al di là del colore, dice e deve
dire per reperire nuove energie, intellettuali, sociali, morali. E’ così, mentre
più ampio si faceva il guado che divideva PCI e PCUS (il partito comunista
sovietico, grande finanziatore occulto di tutti i partiti comunisti),
altrettanto ampio sembrava quello fra la maggioranza della società italiana, di
indole spiccatamente moderata, e i valori e le idee portate avanti dalla
cultura comunista, dai suoi intellettuali e dai suoi mezzi di informazioni: il
fattore P (il fattore propaganda) del PCI non ha caratterizzato solo un modo di
relazionarsi col mondo giovanile, intellettuale, artistico del nostro paese:
col tempo, è divenuto quasi una scuola di pensiero, la corrente letteraria più
significativa dal dopoguerra agli anni ’90, l’unico domma a cui credere e
l’unico modo di produrre dello spirito umano. Emblematici gli anni 70-80 e
soprattutto quelli della segreteria Berlinguer: radicalizzazione dello scontro
con l’URSS, certo, ma impennata della vulgata libertario-rivoluzionaria
dell’ideologia comunista. Chi fuggiva dal PCI, paradossalmente, non lo faceva
perché rimaneva deluso della sua politica, perché sentiva l’odore della borghesizzazione
galoppante di scopi e pratiche: lo lasciavano perché lo credevano troppo
legato, idealmente e politicamente, agli errori e, soprattutto, agli orrori del
comunismo internazionale. Senza i suoi fuoriusciti, come avrebbe fatto il PCI a
dirsi ancora rivoluzionario (quantomeno nel senso più ampio)? Come avrebbe
coperto i suoi interessi sempre crescenti nello status quo, il compromesso storico con la DC? Il processo di
normalizzazione era appena cominciato: meno ampia si fa la sfera d’azione di un
partito, più pressante e meno circoscritta quella della sua ideologia. Senza
quei burocrati della rivoluzione frustrati in casa e senza quei Goldstein,
probabilmente oggi non avremmo così tanto figli di papà vestiti in stile finto-povero, andare in giro con la falce e
martello scarabocchiati sulla borsetta.
Tutto ormai era segnato: le lacrime di Occhetto, a
quell’ultimo congresso, saranno state pure sentite, segneranno, però, la fine
del partito comunista italiano, non quelle del comunismo: il comunismo, nella
nostra penisola, era nato già morto. O, comunque, se di aborto non vogliamo
parlare, parliamo piuttosto di infanticidio. Fatto sta, che il novantadue segna
l’ascesi delle ambizioni del (neo)nato PDS, figlio di NN, per quanto riguarda i
suoi dirigenti, i quali avevano, però, le idee ben chiare su chi avesse dovuto
adottarlo: un prodotto ben confezionato, di fresca produzione, facilmente
digeribile. Niente più richiami pericolosi alla (sola!) classe operaia, e con
valori e principi morali facilmente appetibili a un’Italia ormai secolarizzata.
Poi, però, qualcosa non va: seppur avvezzo alla grande e disomogenea
organizzazione, quale era stato il PCI degli ultimi dieci anni, e soprattutto
resistente alle forze centrifughe, il dirigentismo pidiessino non riesce a far
nascere un fronte di sinistra comune e abbastanza coeso da affrontare la destra
di Berlusconi: i fatti saranno pure fatti, ma le parole lasciano un segno:
quarant’anni di distanza (per quanto apparente) sono molti, perché il figliuol
prodigo ritorni a casa senza reclamare una sua dignità, seppur minima. Messe da
parte le componenti moderate e centriste, le stesse forze appartenenti
storicamente alla sinistra non dimostreranno
mansuetudine nell’accettare i diktat di Botteghe Oscure: in fin dei conti,
anni e anni di peso politico non irrilevante nel sistema partitocratico, e
perché morire poi soffocati sotto quello dei
cugini?
Crolla il sogno di Occhetto, non quello della sinistra:
Palazzo Chigi avrà forse decine di porte, ma una e soltanto una è quella per la
quale entrare: quella principale. Scaricate le pallottole dell’ideologia, alla
quale nessuno più crede, la sinistra usa quelle della magistratura. Il terzo
potere dello stato, con i suoi tribunali e le sue toghe, le toglie davanti Berlusconi,
ma quello che credono D’Alema e compagni, al di là delle dichiarazioni
pubbliche, non è la realtà: la magistratura non è politicizzata, se con ciò si
vuol dire che esegue un progetto politico altrui. Ne ha uno tutto suo, che se
non ha come obiettivo squisitamente pubblico,
mira quanto meno a dare un ruolo di spicco ad alcuni magistrati: sembrerebbe
che qualcuno ci abbia guadagnato pure finanziamenti a tasso zero, ma questo non
è il momento di parlarne. Quando, infine, D’Alema raggiunge la tanto agognata
carica di presidente del consiglio, la situazione è , sotto alcuni aspetti,
davvero particolare: gli eredi (se non, addirittura, i protagonisti) del
comunismo italiano sono titolari, senza deleghe a personaggi e partiti
moderati, del potere esecutivo; la coalizione di centro-sinistra, però, ha
clamorosamente fallito: non si tratta, stavolta, di un rimpasto, e dunque della
sconfitta di un governo, ma della bocciatura del candido della coalizione alle
passate elezioni nazionali. Andare alle urne significherebbe andare in contro
ad una tempesta, ma restare in barca, tentando di navigare, è del tutto
improbabile.
Ci vuole un nocchiere capace, deciso, di grande statura:
D’Alema lo è - questo anche i suoi avversari non possono fare a meno di
ammetterlo- e se gli mancava la legittimità politica, dal momento che non egli
era stato eletto, aveva però quella istituzionale, giacché era stato eletto presidente
della Bicamerale, con la stessa approvazione dell’opposizione, e scoprendosi
moderatore non senza qualche merito. Ora, è chiaro che divenire il coordinatore
dei lavori, che avrebbero dovuto riscrivere le regole della cosa pubblica, non
è da meno che divenirne un esecutore: D’Alema alla Bicamerale è il prodotto di
una strategia lunga e accorta, che porterà la sinistra, nella sua componente
storicamente meno moderata, a rappresentare il nostro paese nel mondo. E a un
colloquio con quel Papa, che a ragione molti vedono come uno degli elementi,
che contribuirono alla dissoluzione dell’impero sovietico.
Sappiamo come si evolse quella faccenda. Forse, se le cose
fossero andate diversamente…. La sinistra potrà pure vincere le prossime
elezioni, vincere una battaglia, ma avrà comunque perso la guerra. Non con la
destra. Con la sua stessa storia. Il processo di normalizzazione poteva e, nelle aspettative di chi si adoperò in tal
senso, doveva trovare sbocco nella prima elezione popolare di un comunista
al governo dell’Italia. Del resto, perché svendere un sogno, se non per una
lontana, certo, ma quanto meno palpabile realtà? D’Alema poteva essere un
ottimo candidato: il candidato di una sinistra, che sappia farsi apprezzare
anche per il suo presente, e che voglia affrontare la sfida elettorale come
protagonista, senza prestare idee e mezzi a facce, forse più pulite –
storicamente e politicamente -, ma certo prive di carattere e spessore.
Un passo indietro per la sinistra, che ricominciava,
nonostante le sue forze, un nuovo periodo di vassallaggio, senza sapere a cosa
porterà. No, non siamo in un paese normale. La normalità, oggi campeggia su
tutte le maggiori strade delle città, nei posti più frequentati: la normalità
con la quale il centro-sinistra vuole conquistare il governo della nazione non
ha più baffi imbarazzanti, ha un viso “politically correct”, un motorino
ecologico. La normalità, oggi a sinistra ha il viso di Francesco Rutelli, ex
sindaco di Roma, che con la sua aria bonaria tenta di farsi valere, ma deve
parlar poco e agire meno. Le sue promesse, stampate su giganteschi cartelli, e
affissi accanto a quelli del suo diretto concorrente, Berlusconi, ci fanno
capire che no, non siamo un paese normale: non lo siamo perché da sei mesi
siamo già in piena campagna elettorale, ma nessuno decide di rendere meno
ridicolo questo sport nazionale, quello di chi rassicura di più, chiamando al
più presto gli italiani al voto. E non lo siamo, perché dopo sei mesi di sfottò contro le promesse
berlusconiane, si fa altrettanto, con l'aggiunta della ridicola scopiazzatura.
Ed egli, D’Alema, che se avesse avuto un’investitura sancita
dal voto, avrebbe avuto più autorità per imporsi; egli che, per stile e forza
dialettica (che, comunque, non sono tutto, ma servono), non avrebbe avuto poi
tanti problemi a tener testa al cavaliere, anzi; egli si ritrova a vedere altri
avere quella fiducia, che lui stesso non ebbe. Oggi cosa è? Il presidente del
suo partito, e sappiamo quanto siano importanti le presidenze per mandarvi in
esilio gli sconfitti: persino quella della commissione europea ha avuto questo
ruolo, altrimenti Prodi non si troverebbe lì. Figlio legittimo dell’apparato
comunista, D’Alema ha visto sorgere il suo sole per la stessa logica che lo ha
visto tramontare: il PCI non si è normalizzato che in una sola cosa: i
meccanismi, che hanno da sempre mosso la dirigenza, stritolano proprio coloro
che se ne servono, azionandoli. Ieri Occhetto. Oggi D’Alema. Quando i DS
decideranno di riappropriarsi del potere decisionale e della responsabilità
politica che, legittimamente, dovrebbero detenere all’interno del loro
schieramento, la storia continuerà. E ci sarà così un futuro. E, allora, diremo
che, domani, sarà il turno di Veltroni.
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