Articolo del giugno 2000.
di Antonio Giovanni Pesce - Il Grande
Fratello Multimediatico si è mosso, la lavatrice delle intenzioni e dei
pensieri già incomincia a fare la centrifuga alle altrui convinzioni: panni
bianchi e panni scuri vengono lavati nella stessa acqua, con la stessa
temperatura. Il fast-food della
cultura dispensa cibi in nome dell’appetibile conformismo e del consumabile
gusto: niente è più buono, tutto è buonista. Così, i salotti del televisore,
dove ogni sera Trans. & Omo si avvicendano per esprimere i propositi delle
loro manifestazioni, le buoni intenzioni di una convivenza pacifica e
tollerante – verrebbe da dire che “bella scoperta”! – oggi, in questi giorni
più che mai, si popolano di santoni della civiltà, di grassoni baffuti, che non
hanno nient’altro da dire che esprimere melense teorie sull’emancipazione
sessuale, sulla libertà dei costumi e altre cose del genere Sodoma e Gomorra.
I nostro governo
dice, poi non-dice, finendo per dire-quasi-che. Di contro ai tentennamenti
governativi, la tolleranza (vedi quanta!) degli ultrà della libertà sessuale si
esprime nel convincimento che “queste puntate devono servire a far capire alla
gente….”, “ la gente deve capire che…” : continuando di questo passo,
sicuramente la gente sarà costretta a capire, non fosse altro che per non
sentirsi ripetere la romanzina ogni giorno. Il lavaggio multimediatico è già
iniziato, e passa per alcune fasi, come ogni lavaggio che si rispetti.
Innanzi tutto,
un primo contatto, filtrare il messaggio subdolamente, far in modo che il
messaggio stesso non venga recepito che come parte di un più ampio discorso. E’
facile, bisogna che quanto sia anormale assuma la vesta della normalità, e
l’artificiosa normalità si crea nei laboratori della frequenza: sentirne
parlare, e sentirne parlare “neutralmente”, come se ciò fosse di nessuna
importanza, impone nella mente dell’homo mediaticus un abbassamento del
livello di guardia: come se si discutesse del più e del meno, come se ciò di
cui si discuta non imponesse una presa di posizione. E’ il primo punto: quando
ci si accorge dell’errore, è ormai troppo tardi, “ormai guarda che succede”,
“non c’è più religione”, e via di questo passo. Il secondo, impone una rottura,
nel senso che, ora, emerge il problema, il nucleo del contendere: non si parla
più, si dice. Si dice, scriviamo, ma sappiamo bene di non sbagliare se
scrivessimo con altrettanta convinzione “si persuade”, non si “convince”: le
ragioni della convinzione possono essere pure in profondità, quelle della
persuasione non esistono affatto. Eppure, a volte fanno breccia nei nostri più
radicati valori. I passaggi sono sempre gli stessi: dall’eguaglianza all’uguaglianza per giustificare la diversità
e la teoria dello Stato come contenitore di ogni scelta etica, come garante di
ogni volizione e azione umana. Uno Stato che non coercida i costumi degli
individui. Come dire? Un colore che non deve tingere, una tromba che non deve
suonare, un cavallo che non deve galoppare, e così via. A nulla serve ricordare
che lo Stato, per essere tale, deve limitare, cioè non è un suo arbitrium ma
esso stesso, in quanto limes fra le persone giuridiche, è arbitrium. Lo Stato
non può, dicono, ma ciò che vuol dire? se non che esso non può, giacché
solamente deve. Non può, deve per l’appunto.
E deve nei confronti non già delle persone, ma dei loro corpi civili.
Fra essere famiglia e amare, checché ne dicano gli intellettualoidi italiani,
passa una gran differenza. Siamo padroni di noi, non dei nostri rapporti
sociali. Questo è quanto un individuo paghi per entrare nel consorzio umano.
Possiamo, soltanto se lo vogliamo, se lo vogliamo tutti, nessuno escluso, rimettere in gioco l’idea di Stato,
possiamo, se ce ne sentiamo capaci, di riformulare, o cambiare tout court, questa forma di convivenza
che ogni civiltà umana, di ogni tempo e luogo, ha posto a fondamento, pur nelle
molteplici sfumature, del proprio sviluppo: possiamo, cioè, cambiare il sistema
o accettarne le regole. Per quanto queste possano essere rese libere o sobrie,
rimane un limite che non può essere superato. La civiltà reprime, direbbe Freud,
che pure in fatto di costumi (sessuali, soprattutto) ha non poche colpe (il
complesso edipico come spiegazione di alcuni “racconti puerili”), e reprime
qualsiasi costume che ne impedisca lo sviluppo o ne metta a repentaglio
l’esistenza.. I costumi sessuali pure. Qualsivoglia costume sessuale, etero od
omosessuale.
Il terzo stadio,
nel quale l’intellighenzia italiana ci ha trascinati in questi giorni di
discussione attorno al Gay Pride 2000, il raduno dell’orgoglio omosessuale che
dovrebbe tenersi nella Roma Giubilare l’8 luglio, è quello della non-tolleranza
(vedi intolleranza) della (presunta) intolleranza: chiunque non pensi che un
raduno di gay e lesbiche, nella Roma che accoglie la cristianità in giubilo,
sia opportuno, o che non pensi all’opportunità di concedere agli omosessuali la
facoltà (del tutto sociale!!!) di riunirsi in famiglia e adottare bambini
(perché ricorrere ai figli degli altri?), diventa, ipso facto, un mostro. Eppure, non si parla della vita di un
omosessuale, né di quello che egli è, ma dei suoi costumi: le sue tendenze
sono, appunto, sue, e nessuno glie le tocca, ma i costumi di ogni individuo no,
la dogana si paga: non si possono accettare i diritti (e nei diritti, in uno
stato civile come il nostro, questo lo si deve riconoscere, c’è anche quello di
essere quello che si è, senza pena di morte o, peggio, carcere- sempre che non
si entri in conflitto con la comunità), e non obbedire ai doveri.
Noi ci sentiamo
di imporre questo limes, sentiamo il dovere di imporre il nostro arbitrium, il
volere di una maggioranza su una minoranza: non possiamo legalizzare nessun
tipo di rapporto che non sorregga il comune vivere, e che anzi miri a
distruggerlo o a minarlo alle fondamenta. E sentiamo, altresì, la necessità di
un comune vivere (non semplicemente lo
Stato) la cui sensibilità non venga alterata da meri giochi di potere
mediatico: la cattolicità, un miliardo di persone, guarda a Roma come centro
spirituale di questa Storia, che noi viviamo. Ed è chiaro, che le due
manifestazioni sono antitetiche per valori, contenuti e, soprattutto,
intenzioni: ed è qui che la presunta voglia di tolleranza degli organizzatori
del Pride fa, quanto meno, acqua. Il Giubileo è a Roma da settecento anni, ma
come mai sia stato scelta propria la città eterna nell’Anno Domini 2000 per un raduno del
genere non ci è ben chiaro. Perché non ce lo si spieghi? Saremmo felici di
saperlo. Dunque, bisogna decidere chi abbia più diritti e quali: un migliaio di
persone di “scandalizzare” o un miliardo di non essere “scandalizzati”?
E’ una lotta
politica, tutto diviene mera lotta politica, quando si vuole svuotare la storia
di un suo significato: il diritto naturale o il sentimento religioso non
gioverebbero a certe visioni libertine,
e la partita politica, se la dobbiamo giocare, deve essere giocata senza
barare. Non possiamo cambiare le regole solo perché ci penalizzino: una
maggioranza governa, e può decidere se e quando una qualche cosa debba
svolgersi. Questo il presidente del consiglio o il sindaco di Roma dovrebbero
saperlo, anche perché nelle questioni che investono maggiormente la civiltà,
non si può fare all’italiana, dove la
minoranza, bastano quattro voltagabbana, riesce a tenere in scacco le sorti di
una intera nazione. Nel caso specifico, di una intera civiltà.
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