Articolo del maggio 2001
di Antonio Giovanni Pesce - L’altalenante umore della fortuna
è l’ultimo a decidere le vicende umane, ma il primo a riderne. E così, se la
sconfitta della sinistra pareva chiara ed inesorabile quando, erano le
ventitré, venivano diramati i primi sondaggi, alle prime ore della notte Folena
metteva quasi indubbio la vittoria della Casa della Libertà, in virtù di “dati
diversi da quelli dei sondaggi”. Quali dati abbiano avuto dalle sezioni, i
dirigenti dell’Ulivo, questo non ci è dato sapere. Eppure all’alba, e man mano
che continuava lo sfoglio (unico protagonista di queste politiche), le parole
dette nella notte parevano frutto più di una visione o, peggio, dettate dal
sonno e dalla stanchezza, che non da una, seppur minima, probabilità. Ma si sa:
i vincitori esultano troppo presto, per non rasentare l’impertinenza, così come
gli sconfitti si dichiarano tali (anche se con svariati e non sempre riusciti
eufemismi) troppo tardi, perché non cadano nel ridicolo.
Ci siamo dovuti
sorbire, allora, un Della Loggia che, al di là dei dati che si trovava in mano,
non faceva che ripetere ai microfoni “che si tratta di una vittoria della CdL e
di Silvio Berlusconi”, quasi a voler convincere più se stesso, che non i
titubanti commentatori politici; Folena, dei DS, con il suo “invito alla
cautela”, che tanto cauto non fu nel 1996; e, infine, quasi come ciliegina
sulla torta, tredici ore dopo, Antoniacci, candidato sindaco per L’Ulivo a
Milano, parlava, ai microfoni del TG3, di una “clamorosa sconfitta di
Albertini”( sindaco uscente e candidato del CdL) perché, a suo dire, sarebbe
arretrato di molto: come se fosse una sconfitta essere eletto al primo turno
con 57.5 % dei consensi, e lasciando al palo (30 %) il proprio avversario.
Perfino la giornalista che lo intervistava, si stava lasciando scappare un
sorrisetto: che poteva essere più marcato, se alla RAI non ci fosse ben poco da
ridere, dopo i “lazzi e intrallazzi” della campagna elettorale.
Tant’è: ingoiare
un simile boccone è dura per tutti, oggi per il centrosinistra, ieri per il centrodestra. È umano, e forse lo è
pure l’annaspare, mentre si vieni travolti dal dramma. E in Italia è stato
facile annaspare tanto, grazie ad una macchina organizzativa davvero assurda.
Solo nella notte del 15 è stata detta la parole definitiva su percentuali,
seggi ed eletti. Cioè, ventiquattro ore dopo la regolare e presunta chiusura
delle urne. “Regolare e presunta”, non certo “reale”, perché, se è per questo,
c’è chi è andato ad esprimere il proprio voto alle cinque del mattino e chi,
meno fortunato, è rimasto senza il primo bollino nella tessera elettorale. I
fatti sono semplici: una affluenza neanche tanto pronunciata, un buon 82 %
circa, una riduzione drastica (un terzo) dei seggi, prevista dalla Finanziari del
97, e l’accorpamento di più consultazioni, soprattutto quello tra politiche e
comunali, queste ultime molto sentite, per ovvie ragioni, dai cittadini, hanno
fatto precipitare le urne nel più totale caos: file lunghissime, ore di attesa
interminabili, donne incinte accampate alla buona, anziani sorretti, pugni,
calci, spintoni… addirittura qualche raid di esausti cittadini contro le urne.
Se dovessimo commentare le deprecabili immagini di queste elezioni, potremmo
liquidare il discorso con una sola parola, neanche troppo veritiera, perché fin
troppo pudica: vergogna!
E vergogna
è, se si pensa a cosa si sarebbe detto, se i cittadini avessero disertato le
urne. Mentre, da quel che pare, non lo è, se a rispedirti indietro sono le
istituzioni, magari perché il governo ha deciso di risparmiare proprio sulle
elezioni, cieco, invece, davanti alle auto blu ancora numerose nel nostro
paese, o alle spese di Camera e Senato, che superano i mille miliardi annui, o
perché l’incompetenza di un ministro degli interni, in un paese in cui i
ministri si improvvisano, reputa fattibile un “election day”, e trascurabile il
fatto che, proprio le persone più anziane, dovranno sfogliare, leggere,
esprimere il proprio consenso, richiudere, imbucare…. non meno di cinque schede
in quaranta secondi, il tempo che ogni persona avrebbe dovuto impiegare, se si voleva
che il sistema non collassasse. Tutto prevedibile, lo sappiamo, perché in
Italia è tutto prevedibile… dopo che tutto accade. Sempre dopo. Prima, quando
l’opposizione, che non sappiamo fino a che punto possedesse i dati che un
ministero dovrebbe o, quanto meno, potrebbe avere (densità di popolazione per
seggi, numeri di seggi, numero di scrutatori, numero di schede pro capite,…..),
premeva per evitare l’ “election day”, il ministro si mostrava fiducioso e non
poco coriaceo nel sostenere le proprie previsioni. Poi, quando tutto si compie,
si corre come matti a gridare ai quattro venti che sì, lo si era detto, che non
si era stati ascoltati, e tutta la tiritera del caso. Con ministri del genere, il
nuovo quadro politico italiano non è una sorpresa per nessuno.
E proprio
la vittoria della Casa delle Libertà, tralasciando i dati che tutti conoscono,
che va analizzata per prima. Intanto, e questo è stato detto da molti, gli italiani
hanno visto nel voto un referendum su Berlusconi, piuttosto che una
competizione elettorale su programmi e strategie. Forza Italia ricorda i tempi
migliori della DC, mentre ormai la sua forza, all’interno della coalizione, è a
dir poco dirompente. Non si espande ai danni degli avversari, anzi. E’
probabile che una parte del milione di consensi di D’Antoni, quella parte meno
legata al passato democristiano del centro, abbia avuto in precedenza, diciamo
cosi, qualche “esperienza” forzista. Ma il fatto che abbia rosicchiato qualcosa
al Biancofiore, alle Lega, e persino ad AN è indice di come le forze del centrodestra si siano fuse perfettamente, e,
in questo senso, è davvero una vittoria “politica”: politica perché, al di là
delle differenze di partito, di area geografica di riferimento e beghe varie, i
partiti del Polo e la Lega hanno intuito il momento cruciale (“la scelta
decisiva”) e non se lo sono fatti scappare. Inoltre, Berlusconi, da
quell’imprenditore prestato alla politica che era, dopo ben sette anni di
opposizione, è diventato un politico a tutti gli effetti, con i suoi difetti, i
suoi pregi, ma con quella autorevolezza e quella legittimità che ci vogliono,
se si vuole interloquire con gli avversari politici, anche a livello
istituzionale, oltre che durante la seppur giusta propaganda. Ha imparato a
tener salda la propria compagine politica, non si è chiuso la strada della
Lega, e anzi l’ha aperta, proprio nel momento in cui il Caroccio non poteva
rischiare, ancora una volta, di rimanere fuori dal carro del centrodestra,
forse per i suoi dirigenti un habitat scomodo, ma del tutto naturale per il suo
elettorato e, infine, è sempre rimasto in sella. E persino gli scudieri, se si
esclude qualche fedifrago, non hanno mutato volto. Non sarà molto? Beh, si
aggiunga che il Cavaliere, è proprio il caso di dirlo, ha imparato dalla
sinistra come si galoppa: petto in fuori, pancia in dentro, buon viso a cattiva
sorte, fegato resistente e un tocco di noncuranza, anche quando il cavallo si
azzoppa. Il Polo degli ultimi anni è sembrato più coeso della sinistra, eppure
anche a destra molte differenze sono emerse, a partire dalla legge elettorale e
sul ruolo dei referendum, ma anche quando qualche commentatore ha fatto
emergere questo tratto del centrodestra, pareva più un tentativo fazioso di
seminare zizzania, che non la descrizione reale delle cose. Berlusconi ha
imparato a fare politica, e non solo a propagandare le proprie idee. E la
destra gli è andata dietro. Sapevano da dove venivano, chi fossero e dove
andassero e, al momento giusto, non hanno avuto crisi esistenziali.
Chi di
crisi esistenziali ne ha avute molte è stata la sinistra, almeno a sentire chi,
di sinistra, lo è sempre stato e sempre lo sarà. Molti errori politici, qualche
errore amministrativo e una balorda campagna elettorale hanno trasformato la
vittoria del 96 in un incubo. Dopo il crollo del muro di Berlino s’è aperta,
per la sinistra italiana, una lunga stagione, fatta più di travagli umani che
di problemi politici. La sempre crescente importanza istituzionale, la capacità
di dialogare con la socialdemocrazia europea, la possibilità di rappresentare i
più svariati ceti sociali non hanno significato, però, meno dubbi, più forza
propulsiva dell’azione amministrativa, il coraggio per il salto definitivo del
guado. Tutt’altro. La sinistra (e si parla solo della sinistra del centro
sinistra, perché il centro della coalizione e la sinistra di Bertinotti tutto
sono, fuorché malati), che pure ha dimostrato una capacità innovativa notevole,
ha perso per strada i frutti della svolta di Bologna, quella che portò il PCI a
diventare PDS. E’ uno sconfitta, se letta in questo modo, la storia della
sinistra negli ultimi dieci anni, perché alle fobie e alle fisime del passato
“proletario”, si sono sostituite quelle “sul pericolo di una dittatura in
Italia” e “sull’isolamento in Europa” del nostro paese. Ciò che aveva fatto
della sinistra italiana un’area nuova ed affidabile, era stato proprio lo
sbarazzarsi del richiamo “alle armi”, della paura degli “elementi reazionari”,
la voglia, emersa in alcuni sui ambienti, di un confronto su programmi, idee e
valori con le altre realtà dello scenario politico nazionale. Un po’ come aveva
fatto la destra, e paradossalmente quella destra, quella di Fini, che i conti
con passato li ha fatti, e a quanto pare seriamente: difficile ricordare un
discorso, un’intervista, un manifesto elettorale nel quale Fini abbia attaccato
indiscriminatamente la sinistra al grido di “comunisti”. E non per paura della
reazione, ma perché ha chiaro che i demoni del passato, per quanto ancora a noi vicino, non solo non pagano più in
termini di voti, ma, per giunta, è del tutto impossibile che riescano ad
influenzare lo scorrere delle eventi politici europei. Non è un caso che,
esclusi i comunisti di Cossutta e quelli di Bertinotti, il centrosinistra e il centrodestra
si siano trovati d’accordo sulla politica estera (si ricordi il caso albanese,
tanto per citarne uno), e che continueranno ad esserlo, almeno in questo, come
opportunamente ha ribadito in una intervista post-voto il leader
dell’opposizione, Francesco Rutelli. La legittimità politica in Europa di un
nostro esecutivo era (in campagna elettorale) ed è (ora che ci si avvia ad un
incarico al Cavaliere) del tutto fuor di dubbio: il ricorso al bau-bau, all’orco
cattivo è stato un errore, ancor prima politico che di immagine: un far
ripiombare l’Italia, e in generale un paese europeo, agli anni dei muri, delle
cortine di ferro, degli ostracismi e delle divisioni. Con l’avvallo, questo
bisogna dirlo, di molti altri politici europei, alcuni dei quali addirittura
con incarichi istituzionali nazionali e comunitari (il riferimento è al Belgio,
che tenterebbe la via delle sensazioni, già infruttuosi con l’Austria, se non
fosse che il nostro paese, in termini di “peso”, è ben altra cosa del paese
d’oltralpe), più propensi al mantenimento della forza politica della sinistra
nel continente, che non all’unità della nascente Europa.
Un errore
stupido, ma anche ridicolo, se si considera che non è stata attaccata una fazione
politica, ma un uomo, e che mai, come in questa campagna elettorale, si è
chiesto più un voto di gradimento della persona che un atto di fiducia al
programma. Il centrosinistra, anche nelle sue parti più moderate, si è lanciato
in questo gioco al massacro, che alla fine avrà forse fatto guadagnare qualche
punto percentuale, rendendo meno catastrofico il verdetto delle urne, ma quanto
possa essere fruttuoso, proprio per una coalizione che vada all’opposizione,
questo bisognerà vederlo nei prossimi anni, quando sarà necessario far pensare,
piuttosto che far tremare; proporre, piuttosto che propagandare. Combattere per
qualcosa rende l’uomo meno feroce, ma più coraggioso del combattere contro
qualcuno.
La
riflessione, che a sinistra si aprirà nei prossimi mesi, potrebbe portare un
rilancio, potrebbe aprire ai partiti dell’opposizione nuove soluzioni e, perché
no, una rivincita elettorale, magari alla prossima tornata, nelle
amministrative. Ma perché ci si possa risollevare, bisogna prendere coscienza
delle ragioni della caduta. Senza una seria riflessione, magari cedendo alle
lusinghe della retorica, o cercando di annacquare la situazione, il centrodestra
potrebbe durare più di quanto sia immaginabile, per lo meno per mancanza di
alternative. Una buona base di partenza potrebbe essere il considerare la
sconfitta sotto il punto di vista non dei dirigenti, ma degli elettori. Negli
scorsi mesi, i migliori sondaggi venivano proprio per bocca di chi, nel 96,
aveva votato l’Ulivo, e lo avrebbe comunque votato ancora, ma non per questo
lesinava critiche e duri commenti. “ Il cuore batte comunque a sinistra” – mi
si disse un giorno – “ma in questo momento ce l’ho malato!”. Non è stata
convincente, dunque, la politica amministrativa, e in molte occasioni è parso più
sicuro degli “ottimi risultati” il quadro dirigente che non la base: un vecchio
problema italiano, che affligge destra e sinistra, di non mostrarsi disponibili
a cambiare sella, frattanto che si galoppa.
E anche quando non si avrebbero più ragioni per mistificare la natura
delle cose e la delusione cocente di un popolo, quello di sinistra, che in
fatto di cuore ed entusiasmo non è secondo a nessuno, tuttavia si trovano
eufemismi, artifici linguistici, belle parole e sceneggiature tragiche per
celare insuccessi ed errori. Si è parlato, allora, di “vittoria politica” del centrodestra,
davanti a un centrosinistra diviso. Le cose starebbero, per alcuni politologi
dell’ultim’ora e per Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti Italiani, in
questo modo, che la mancata alleanza con il partito di Bertinotti avrebbe
permesso alle destre “di avere un vantaggio”, non reale, bensì solo elettorale.
Un’analisi, questa, buona per chi voglia trovarsi a posto con la propria
coscienza, piuttosto che pronto a controllare la nuova maggioranza e a
riproporsi a guida della nazione. Oltre che degna più di una discussione in
osteria, che non sulla stampa. Perché Diliberto, che ha accusato Bertinotti di
avere una “responsabilità storica” per l’esito di domenica 13 maggio, e i tanti
che, incapaci di trasformare una sconfitta, se non in una prossima vittoria, in
una timida speranza, hanno coperto pudicamente le nudità della coalizione
guidata dall’ex sindaco di Roma, farebbero bene a ricordare che: 1) sono
sommabili solo i voti di coloro che
condividono un programma, dal momento che ci si fa eleggere, non tanto per
evitare che ci vada qualcun altro al potere, ma perché si vuole governare il
paese in un modo piuttosto che in un altro. Ora è chiaro, che Bertinotti
intende la sinistra, e le riforme che questa dovrebbe fare, in modo meno,
diciamo così, “tiepido” di come vengano intese da D’Alema, Veltroni, Rutelli e
dallo stesso Diliberto. Se bastasse non essere per il centrodestra per votare a
sinistra, allora le cose si metterebbero male: una capatina veloce ai risultati
di tante piccole liste (con o senza fiamma in vista, ma dalla matrice
indubitabile!), per accorgersi che L’Italia, semmai, ha una vera vocazione
destrorsa. Inoltre, non sappiamo se la Margherita, il simbolo che ha accomunato
i moderati Mastella, Dini, Castagnetti, avrebbe avuto tanti petali, se fosse
stata così vicina alla falce di Rifondazione Comunista. Argomentazione, questa,
poco sconfessabile, dal momento che altrettanto si sarebbe detto, se vi fosse
stato anche un timido patto di desistenza tra la CdL e la Fiamma Tricolore di
Pino Rauti; 2) non del tutto è stato diviso, quello che nel 96 era unito.
Rifondazione Comunista ha avuto suoi canditati solo nel proporzionale, mentre
nell’uninominale non ne ha presentati. Domanda: dove è finito quel 5%? Per
giunta, proprio alla Camera, il cui 75 % del corpo viene eletto tramite
uninominale, il centrodestra ha avuto la sua più netta e chiara vittoria. Si
potrebbe sostenere, che gli lettori di RC abbiano votato, lì dove non erano
presenti propri candidati, per la Casa delle Libertà: è un’ipotesi, certo, ma
quanto realistica lo lasciamo decidere all’intelligenza dell’onorevole
Diliberto; 3) la sconfitta è stata di carattere anche, e puramente, per alcuni
versi, “sociale”, e lo si vede dalla ripartizione del voto per aree
geografiche: al sud il consenso della CdL ha toccato il suo apice, e in Sicilia
è stato inflitto un durissimo “cappotto” alla sinistra per quel che riguarda i
seggi assegnati coll’uninominale. Sud e, in particolare, Sicilia: non il ricco
Nord-Est; 4) infine, la linea bertinottiana ha pagato, ha avuto un riscontro,
eccome, mentre il “concilialismo” tra le richieste dei Comunisti Italiani e i
valori del moderatismo centrista non ha prodotto i risultati sperati, e pure la
soglia del 2% è rimasta lontana: segno, questo, che c’è chi, alla sinistra del centrosinistra,
vuole battere Berlusconi, ma senza battere in ritirata su tanti progetti
“storici”.
La
sconfitta, dunque, c’è stata, e peggiore di quanto ci si potesse aspettare: non
per i numeri, ché, anzi, sono stati meno crudeli, ma per quello che
significano. La sinistra non è più quello che è stata, benché meno quello che
ha creduto di essere. Una sera di quattro anni fa, proprio dopo una riunione
tra amici nel mio studio, un amico, puntandomi un dito sul petto, mi disse: “
…. perché è colpa di giovani come te, se il Polo ha avuto nel 94 una forte
maggioranza alla Camera”. Da allora,
tante cose sono cambiate. Eppure l’amico aveva detto, non so quanto
inavvertitamente, una verità ineludibile. Ora le elezioni, ieri la Giornata
Mondiale della Gioventù a Tor Vergata, la decrescente politicizzazione
dell’impegno sociale e dei luoghi di cultura (università comprese): la
sinistra, e tutto il centrosinistra, cambino registro, mutino strategie. Perché
il peggio potrebbe ancora arrivare.
Antonio Giovanni Pesce
Nessun commento:
Posta un commento