di Antonio G. Pesce
- Sta tornando di attualità un dibattito che credevamo morto tra le
spire del partitismo degenere di questi ultimi anni. Ci sono ancora
ragioni per dirsi di ‘destra’ o di ‘sinistra’? Parrebbe di no, e a
dimostrarlo non è solo la discussione teorica, ma anche la nuda pratica
politica. Il potere ha sempre bisogno di legittimità per esercitarsi.
Non è un fatto naturale che un uomo decida (quale che ne siano i margini
di manovra) sulla persona altrui, e non è altrettanto scontato sapere
in che mondo dobbiamo abitare. L’agenda Monti, sottoscritta dai maggiori
(o ex tali) partiti politici italiani, fa della necessità il suo
fondamento: necessità di regolari i conti, di pagare i debiti, di fare
sacrifici, almeno la parte consistente e meno abbiente del Paese. Ma
anche questa è una scelta ideologica, che avrà anche le sue pur buone
ragioni, non potendo però vantare alcuna ineludibilità dogmatica.
Potrebbe essere utile rileggere Destra e sinistra
di Norberto Bobbio, nell’edizione ‘essenziale’ che la Donzelli ha
mandato in stampa nel 2009. Mancano altri testi, accumulatesi dall’anno
della prima uscita (correva il 1994) all’edizione del 2004, che rimane
quella di riferimento.
Utile perché, innanzi tutto, non si allinea alla decretata fine della validità della diade
(destra/sinistra appunto). Questa distinzione del linguaggio politico
continua a persistere ancora oggi, che di anni ne sono passati venti da
quando ci rifletteva sopra Bobbio. Possiamo, infatti, trovare
riprovevole lo sbando morale in cui versano partiti e istituzioni, e
possiamo anche votare in modo cinico, contrapponendo all’antica ma ormai
vetusta casa, a quel tetto in cui riparammo per anni, asili più stretti
ma ancora vergini. Tuttavia, quella distinzione originaria persiste, il
linguaggio comune la trattiene, non temendo di violare luoghi comuni né
di non allinearsi a mode culturali.
Vero che il mondo si è maggiormente
complicato negli anni, e tanti problemi tagliano trasversalmente il
panorama politico, contrapponendo, in una specie di guerra civile
ideologica, esponenti della stessa area di riferimento. Ma destra e
sinistra non sono uno schema di comportamenti standardizzati per cui –
dicendola con Gaber – fare la doccia è di sinistra mentre il bagno è di
destra. Si tratta, semmai, di una ideal-tipizzazione, che nel
reale sperimenta diverse sfumature: «Nulla di strano: fra il bianco e il
nero ci può essere il grigio; fra il giorno e la notte c’è il
crepuscolo. Ma il grigio non toglie nulla alla differenza fra il bianco e
il nero, né il crepuscolo alla differenza fra la notte e il giorno» (p.
24).
Perfino la ‘trasmigrazione’ di determinati autori di riferimento da un polo all’altro non è sintomo della crisi della diade.
Nietzsche, Heidegger e Schmitt sono autori storicamente definiti ‘di
destra’, in realtà molto letti (in Italia e anche in Francia) da
studiosi di chiara collocazione ‘ a sinistra’. Bobbio li ritiene comuni
non già per quello che dicono, bensì per come lo dicono: l’affrettare i
tempi, il correre verso la dissoluzione di un sistema per giungere
all’«aurora» di uno nuovo è comune agli estremismi.
Questo punto è importante. Bobbio
dimostra di farsi guidare da una ‘certa’ visione della destra: teutonica
possiamo dire, che ha anche avuto risvolti paganeggianti. Cita – è vero
– autori cattolici come Donoso Cortes o De Maistre, ma per liquidarli
sbrigativamente come irrazionalisti e reazionari. Insomma, egli segue
l’immagine che la destra ha dato di sé negli ultimi trent’anni, in cui
ha operato (non si sa quanto in bene) Alain de Benoist. Non è questa la
sola destra, tuttavia. Il filosofo genovese Piero Vassallo da anni tenta
di dare una visione diversa, mostrando i limiti di certo pensiero
tedesco, e chiedendo una rivalutazione di pensatori e dottrine
tipicamente italiani. Se si affermasse questa ‘scuola’, bisognerebbe
rivedere la rotta indicata da quella che Bobbio chiama «stella polare»,
il criterio cioè a cui si è affidato nel distinguere i due poli
ideologici: l’eguaglianza. Per il filosofo torinese, infatti, la
sinistra è più egualitaria della destra, mentre questa accetta di più le
ineguaglianze. «Ne segue che quando si attribuisce alla sinistra una
maggiore sensibilità per diminuire le diseguaglianze non si vuol dire
che essa pretende di eliminare tutte le diseguaglianze o la destra le
voglia tutte conservare, ma tutt’al più che la prima è più egualitaria e
la seconda è più inegualitaria» (p. 95).
Mi pare che questa visione, oltre
che molto tarata dalla formazione di Bobbio, abbia anche fatto il suo
tempo. La differenza potrebbe essere, invece, di ben altra natura che
politica e sociale, consistendo in una diversa visione antropologica. Vi
è chi crede che l’uomo abbia limiti (costitutivi della sua essenza,
ontologici) e chi crede che non ne abbia. Tutta qui la differenza? Non è
roba da poco. La sinistra è tecnica, l’idea che, in fin dei conti, l’uomo possa autoregolarsi da sé e formarsi il proprio mondo. La destra è pratica,
la certezza che l’uomo abbia profondi limiti, non sempre superabili e
comunque affrontabili a rischio di enormi pericoli. La sinistra coltiva
l’audacia, la destra la prudenza. Il che non vuol dire
che gli uni siano coraggiosi, spavaldi, eccetera, mentre gli altri
codardi, pacifici, o altro. In fondo, sono due visioni dell’uomo
(schematicamente parlando) che si contrappongono come limiti ideali. Nel
mezzo c’è la realtà, che è la realtà di ciascuno di noi.
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