di Antonio G. Pesce - Ne stanno aprendo un altro. Di centro commerciale. Se non vado errato, siamo quasi a otto (centri commerciali o quasi). Ora, non è difficile fare del bieco moralismo. C’è un noto cantante, che negli anni Sessanta cantava contro il cemento della città. Frattanto ha fatto i soldi, cementato una fetta di campagna, portato in tribunale i contadini che non gli vendevano i loro lotti, e telefonato in diretta nazionale per pontificare contro i mali d’Italia e del mondo intero.
Dunque, bando alle canzonette sanremesi dove si dice che abbatteranno un teatro per farci un discount. Certo, uno guarda via Etnea e via Umberto e vede commercianti che serrano le saracinesche per non riaprirle più. I più attempati ricorderanno via Garibaldi o via Manzoni a metà degli anni ’80. E al limite si può dire che il commercio si è solo spostato. D’accordo, si è solo spostato. Passi. Tanto, ormai ovunque si compra cinese, perché sono proprio le case produttrici a chiudere battenti. Ma non è solo questo il problema. E non è neppure quello dell’origine dei capitali, o della fine che fanno i guadagni.
Il problema è semplice: il commercio fa girare il denaro come il lavoro, e noi abbiamo bisogno di produrre entrambi. Non basta più il giuoco della tre carte. Qui ormai si campa con la pensione dei nonni, sperando che, prima o poi, papà ci arrivi pure, dando un po’ d’aria alle asfittiche tasche familiari. Nessuno che abbia al di sotto dei quarant’anni spera in un lavoro. Si sta tornando a forme patriarcali di famiglia, perché le nuove generazioni possono sostentarsi soltanto di promesse pre-elettorali. Un centro commerciale è come un grosso pacco da scartare sotto l’alberello del politicume: lo apri, e ci trovi trecento, quattrocento voti. Ci trovi il posto per le clientele, che si azzuffano tra loro. Ci trovi la consulenza per Tizio e Caio, che si son fatti un mazzo così alle scorse elezioni e li devi ringraziare. Ci trovi, soprattutto, licenze da firmare, autorizzazioni da concedere, tavoli da imbandire di belle e fruttuose discussioni.
Fumo. Soprattutto tanto fumo e pochissimo arrosto. Ovviamente, il problema non è del centro commerciale. Non è neppure di chi ci lavora (almeno finché se lo tengono). Il problema è di chi non sa creare nient’altro che fumo. E perfino il fumo non basta più per tutti.
Pubblicato il 31 maggio 2011 su CataniaPolitica
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