di Antonio G. Pesce- Non sapremo mai quanto cattivo fosse davvero Adolf Hitler. Di certo, non era così anormale come si lasci credere. Non era l’imbianchino di cui parla Brecht. Non sarebbe comunque rimasto nella storia dell’arte, anche quando avesse continuato la carriera di pittore. Ma i suoi acquerelli, al di là di un certo goticismo di maniera, non erano affatto male. E il suo stile di vita potrebbe essere consigliabile. Amava gli animali, per fare un esempio. Né più né meno dei tanti che, ai giardinetti, ti impongono la presenza del loro fido amico e del suo per niente affatto pigro intestino. Inoltre, mangiava bene. Era un salutista. Ipocondriaco, lo diremmo. Non fumava, beveva poco.
Se proprio di Hitler non ci si vuol fidare – anche se è tornato di moda nelle barzellette del grande cabaret italiano – con i tedeschi si può andare sicuri. Gente comune, gente perbene, gente laboriosa. Fece scandalo quando, nel 1963, una filosofa tedesca di origini ebraiche, Hannah Arendt, parlò della banalità del male, seguendo il processo che si stava celebrando in Israele contro Adolf Eichmann – un macellaio punto. Ma un padre affettuoso, un uomo senza troppi grilli per la testa, che in vita sua aveva letto sì o no un quattro libri, e che quasi sveniva quando doveva assistere alle esecuzioni.
Pochi erano i nazisti identici a come ce li racconta la filmografia posteriore. E la critica, e la letteratura, e il giornalismo. Tranne un paio, tutti i tedeschi dell’epoca, che adoravano il Fuhrer come un dio e veneravano gli apparati di partito come fossero una chiesa, erano persone con le quali avremmo preso un caffè al bar. Ma la visione ‘mondana’ con la quale guardiamo alla storia – ormai da qualche secolo a questa parte – ci ha impedito di aver chiari due pericoli: 1) che la natura umana non è così perfetta come crediamo, e dunque il male ha una parte nella nostra vita; e che 2) proprio per questo, non è facile distinguere il bene dal male, i fini dai mezzi, le intenzioni dalle conseguenze, e che è necessario, allora, esercitarsi nell’arte della prudenza e della temperanza.
I tedeschi volevano uno stato efficiente, che si risollevasse dalla sconfitta della grande guerra; volevano continuare ad avere ideali, sentirsi parte dello Stato, e trasformare questo in una comunità e, come ogni comunità che si rispetti, trovare la propria unità attorno ad un capro espiatorio. Hitler diede loro tutto questo.
Ad Adro, il sindaco leghista ha fatto stampigliare i simboli del suo partito perfino sui banchi dei bambini. Oltre che sull’androne della scuola, nei cartelli delle aiuole, nelle finestre delle scale, ecc. Si è giustificato in modo ‘banale’: il sole delle alpi sarebbe un simbolo storico, presente in altre costruzione del quieto paesino.
Qualche giorno dopo, Umberto Bossi ha ‹‹battezzato›› con l’acqua del Po i suoi più fidi adepti: oltre al figlio Renzo, anche il presidente della Regione Veneto Zaia e quello della regione Piemonte, il (sedicente) cattolico Cota. Commentando l’accaduto a “L’Infedele” di Lerner, un tranquillo Borghezio ha testualmente affermato:‹‹ Bossi ha riportato il sacro in politica››.
Faremmo un torto al nazionalsocialismo, se liquidassimo con i pur facili accostamenti i nostri leghisti. Anche perché le liturgie pagane di terra teutonica avevano ben altro spessore: lucide follie totalitarie accolte davvero come momento catartico di un popolo frustrato dalla guerra, e non già pagliacciate caserecce di chi poi non disdegna di farsi campagna elettorale in sacrestia. Però, il linguaggio mitologico della Lega, il suo simbolismo pagano, il tradizionalismo ricreato ad arte per un popolo – quello italiano, perché in questo anche gli evanescenti padani sono, in tutto e per tutto, italiani – per un popolo che misconosce la propria storia, sono facili detonatori di ben altre (e più concrete) questioni. Per quanto, ancora, i leghisti avranno sotto controllo la situazione? Per quanto potranno tirare la corda senza che questa si spezzi?
Là dove l’ideologia si è fatta fede e storia, i progetti contemplavano una ‹‹soluzione finale››. Niente che sia accaduto in Germania o in Russia potrebbe essere rubricato come ‹‹incidente›› di percorso. Semmai corollari possibili, magari non direttamente voluti ma accettati e strumentalizzati a proprio vantaggio. Il rischio era solo un movente in più per perseguire il fine.
Il progetto leghista di impadronirsi del nord d’Italia, identificando partito e territorio – che è poi, per puro caso, lo stesso della RSI – al di là delle intenzioni espresse dal corpo elettorale, che ancora si fa rappresentare anche da altro soggetti politici, ed esprime altri valori e altre simbologie; questo progetto contempla ancora quella ‹‹soluzione finale››, che in anni passati venne tante volte indicata? Se no, si augurino i leghisti di non perdere il controllo della situazione. Quando non si è pronti a portare la guerra fino alle sue estreme conseguenze, è stupido anche solo averla dichiarata.
Pubblicato il 15 settembre 2010 su www.cataniapolitica.it
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