di Antonio G. Pesce- Con buona pace di quel che dichiara il presidente Napolitano, noi siamo in guerra. Che poi questa guerra non sia dichiarata dalla nostra nazione, a cui è impedito dall’art. 11 della Costituzione, ma da un organo sovranazionale, tanto utile a tenere pulire le coscienze, poco cambia nella dinamica delle cose. Con o senza l’avallo dell’Onu, ci sono armi che sparano, uomini che muoiono, diritti da far valere, interessi da difendere, e precauzioni da prendere.
Il Risorgimento che dovremmo esportare in Libia, non potrebbe essere migliore di quel che facemmo noi 150 anni fa. E allora, per la nostra libertà, dovemmo combattere, sparare, uccidere e morire. E con noi, altri europei che credevano nella nostra causa. Oggi sull’altra sponda del Mediterraneo si combatte. E se si combatte per la libertà, tanto meglio. Ma ciò che si sta combattendo è una guerra: possiamo nasconderci dietro un dito, ma quel che è tale rimane.
Avere una classe politica incapace ci ha condotti all’ennesima figuraccia storica. Sia chiaro: la politica è fatta da uomini, non da angeli. E gli interessi nazionali, checché ne dicano le verginelle tornate alla ribalta nel Pantheon del perbenismo borghese, vanno a volte perseguiti stringendo mani immonde. Ma non è che le mani dell’assassino, mentre stringono la penna dei trattati, siano più pulite di quando imbracciano le armi.
Questa volta, poi, ci è andata anche peggio (e non credevamo potesse esserlo). Nel ’43 almeno avevamo scommesso sul cavallo dato per vincente: un’industria potente e il miglior esercito dell’epoca. I tedeschi ci snobbavano, ma i nostri non baciarono loro la mano, e non si sa chi dei due duci ricevette l’accoglienza più grandiosa nel paese dell’altro. Insomma: salvammo le apparenze. Hitler era quel che era anche prima del ’43, ma Mussolini, più che un idiota, fu un avventuriero: tutti gli altri Stati ci videro come degli opportunisti, pronti a saltar sul carro del vincitore, ma non dei fenomeni da baraccone, in preda ad un palese stato confusionale pronti a rimangiarsi la parola data in ufficiali trattati. Inoltre – non è cosa da poco – il duce che firmò il patto d’acciaio è lo stesso che rimase fedele all’alleato tedesco: pur nella sua tragicità, Salò aveva un senso.
La differenza tra avere una classe dirigente di spregiudicati politici ed una di incapaci comparse maccheroniche sta tutta nel modo di cadere: chi con dramma e chi con farsa. Non solo abbiamo offerto le nostre basi, ma pure il nostro apporto bellico. Per abbattere chi? Lo stesso che abbiamo accolto in pompa magna, tra salamelecchi e coreografiche pacchiane nella nostra capitale, baciandogli mani e dandogli pacche sulle spalle. Berlusconi tace. In poche occasioni ha avuto tanto pudore come oggi. Quel che aveva da capire, lo ha capito: statene certi! Frattini – più duro di comprendonio – parla di quel dittatore come se non l’abbia mai incontrato. E non ne abbia mai difeso le pagliacciate.
Intanto, i francesi hanno portato la guerra nel Mediterraneo. A un tiro di schioppo dalle nostre coste. Invase, ormai, da disperati, che vengono accolti da disperati. Lampedusa è stata trasformata in una discarica a cielo aperto di quei “derelitti” di cui il nord leghista – e dunque non tutto il nord, ma quello xenofobo e antimeridionalista di Maroni e Bossi – non vuole sentire il puzzo.
Dopo esserci fidati, siamo stati venduti. Ancora una volta. A questo punto, il Ponte, più che lo Stretto, è meglio farlo con l’Africa. Per risparmiare quelle vite umane perse nei flutti delle traghettate improvvisate. E per rendere chiaro ormai dov’è che ci vogliono confinare.
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