Giovanni
Gentile professava la fede in Gesù Cristo secondo un'intenzione genuina,
purtroppo associata al convincimento che non fosse ragionevole e
sostenibile la strenua opposizione cattolica al soggettivismo di Kant e
di Hegel. Riteneva, infatti, che i sommi autori della modernità
avessero avviato la purificazione e iniziato la perfetta restaurazione
della Verità rivelata da Gesù, vero Dio e vero uomo. Coerentemente
assegnava al proprio pensiero la missione di riformare l'idealismo
hegeliano per renderlo finalmente capace di condurre la dottrina
cristiana alle dimenticate e censurate verità delle origini.
Nel saggio "L'interiorità intersoggettiva dell'attualismo Il personalismo di Giovanni Gentile",
edito in questi giorni dalla romana editrice Aracne, Antonio Giovanni
Pesce, ammiratore e acuto interprete della filosofia gentiliana,
sostiene, appunto, che, secondo il filosofo di Castelvetrano, "La
modernità è la scoperta della dignità umana. Lenta, graduale, ma il cui
seme è stato piantato dal Cristianesimo. E la filosofia moderna è
l'appropriazione critica del deposito del
Cristianesimo, lo svolgimento razionale della nuova verità, che lo
spirito, correttamente inteso infine dall'attualismo, opera su un
contenuto ancora intriso di mitologismo".
A conferma
della sua tesi, Pesce cita un testo in cui Gentile, dopo aver sostenuto
che la separazione del divino dall'umano - ossia l'affermazione della
trascendenza di Dio - è negata per la prima volta proprio dal Vangelo,
conclude che "filosoficamente la teologia cristiana rimane impigliata nella rete del platonismo e aristotelismo; e quando la filosofia moderna proseguì l'opera che essa aveva iniziata di intrinsecare il divino coll'umano,
le si volse contro nemica; e fissa ormai nella tradizione de' suoi
istituti, s'è poi straniata per sempre, irrimediabilmente, dal pensiero
moderno".
In buona
fede, quantunque prigioniero dell'abbagliante trionfalismo dei moderni,
Gentile riteneva legittimo il passaggio dalla verità sulla trascendenza
di Dio alla fragile opinione trascendentalista. Coerentemente tentava di
rassicurare i critici di parte cattolica affermando l'ispirazione
ortodossa della dottrina dell'Io trascendentale: "Chi non ha pace se
non gli si assicura una Realtà trascendente, abbia pur pace: questo Io,
in tanto è il nostro Io, in quanto trascende l'uomo e tutta la natura.
Soltanto che produce la natura e l'uomo, come la sua propria realtà. E
perciò meglio che trascendente si denomina da un pezzo a questa parte
trascendentale poiché il suo essere trascendentale non toglie che sia
immanente all'esperienza quantunque da essa profondamente distinto e
diverso".
Pesce
sostiene, azzardando, che in questo brano Gentile parla del Dio dei
cristiani. Certo è che questa era la sua personale convinzione.
La
filosofia di Gentile era concepita per indirizzare la rivelazione
cristiana alla sua presunta origine immanentistica, in ultima analisi
per promuovere la separazione della teologia dall'idea della
trascendenza divina, giudicata avventizia e spuria, ossia risultato del
contagio platonico-aristotelico della verità evangelica.
Se non che
la trascendenza di Dio, fu stabilita da San Tommaso, che confermò, con
magistrale rigore, la nozione biblica di Dio Creatore, unificando ed
elevando le frammentate e intermittenti nozioni di Platone e di
Aristotele, ad esempio l'idea di partecipazione e la dialettica
atto-potenza.
Nel saggio sull'enciclica Pascendi, Gentile sostiene
che la sua filosofia contiene le verità confusamente cercate dai
modernisti. Oggi si può affermare, quasi a chiarimento delle più arcigne
espressioni dell'attualismo, che Gentile ha anticipato la svolta antropologica della teologia tentata da Karl Rahner, l'autore di una tesi incautamente accolta in un documento del Concilio pastorale Vaticano II: “Poiché in lui [nel Verbo incarnato] la
natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per
ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata ad una dignità sublime.
Con l’incarnazione [infatti] il Figlio di Dio si è unito in certo modo
(quodammodo) ad ogni uomo”[1].
Se non che
la modernità è stretta in una tenaglia sulla quale agiscono tensioni
contrarie ma in qualche modo convergenti: l'esegesi di Hegel elaborata
da Alexandr Kojève, un autore che ha fatto salire in superficie il fondo
oscuro e mortifero dell'idealismo, e il tomismo speculativo di Cornelio
Fabro, che ha confutato la tesi heideggeriana intorno all'oblio
dell'essere, dimostrando che San Tommaso ha affermato, in perfetta
solitudine, il primato dell'essere sul pensiero.
La
filosofia di Gentile, pertanto, deve essere considerata alla stregua di
un segnavia piantato al bordo di un sentiero ultimamente percorribile
solo a ritroso, cioè nella direzione da Hegel e Kant a San Tommaso.
La
caducità della riforma teologica non abbassa tuttavia la statura morale
di Gentile, uno fra i più nobili protagonisti della tragedia provocate
dal Novecento filosofante.
Gentile, infatti, tentò di attenuare l'errore dei moderni con puntuali riferimenti al cuore cristiano che pulsava nel pensiero di Pascal. Opportunamente Pesce cita un brano del "Sistema della logica", nel quale si legge un progetto di vita orientato a dare un nuovo e più ampio respiro al razionalismo: "Un
cuore bensì sarà vinto da una ragione, ma non perché il cuore sia mai
destinato a soccombere nella lotta, sì perché la ragione vince sempre se
stessa. Anzi è un'eterna vittoria su se stessa".
Di qui un'esistenza orientata a vivere secondo l'imperativo dell'altruismo: "Finché
non si ami il prossimo nostro come noi stessi e non si vegga perciò tra
noi e il prossimo la relazione stessa che tra noi e medesimi, il nostro
prossimo non sarà veduto veramente come tale".
Gentile
obbedì all'imperativo del cuore, che lo elevava al di sopra del gelido e
feroce Assoluto contemplato da Hegel e dagli hegeliani. Il professore
Ketteler, che dal filosofo italiano fu soccorso nel pericolo e
nell'indigenza, poté affermare legittimamente che l'assassinio di
Gentile fu un parricidio. Gli italiani consapevoli di vivere dopo il
tramonto della filosofia moderna, nella figura dell'uomo Gentile possono
finalmente riconoscere un padre della loro patria.
[1]
“Cum in Eo natura humana assumpta, non perempta, eo ipso etiam in nobis
ad sublimem dignitatem evecta est. Ipse enim, Filius Dei, incarnatione
sua cum omni homine quodammodo Se univit”.