Segno chiaro che Mussolini e, meglio di lui, Gentile avevano visto assai bene: dopo l’unità e, soprattutto, dopo Caporetto e Vittorio Veneto, le masse avevano fatto il loro ingresso nella storia, ma restava loro precluso il potere. Non si era popolo prima, e quando lo si è divenuti, la sterile politica parlamentaristica – nel suo senso più meschinamente borghese – non poteva incarnare l’ideale per cui la ‹‹giovane Italia›› era morta negli anni della Grande Guerra.
Serviva dell’altro. Tra le centinai di pagine che si potrebbe citare, forse la più emblematica è quella che Gentile scrive in Genesi e struttura della società, opera postuma ma scritta e rivista prima che l’autore venisse barbaramente assassinato nel ’44. Vi leggiamo, tra l’altro, che ‹‹l’errore del vecchio liberalismo che torna sempre variamente camuffandosi a girare pel mondo come l’ultimo figurino della politica eterna, è l’errore stesso del sindacalismo: la concezione atomistica della società, intesa come l’accidentale coacervo e incontro di individui … Individui esterni l’uno all’altro, partecipi al bellum omnium contra omnes››.
Il liberalismo del dopoguerra non poteva continuare a considerare individui, coloro che stretti dalla bandiera nazionale e nel mutuo soccorso si erano scoperti italiani. Serviva un ideale comune, una reductio ad unum, creare un organismo in cui tutti si potessero rivedere, pur se in una certa difformità di interpretazioni. L’Italia – come la Germania – ha avuto una storia affatto differente da quella di Francia e Inghilterra, e dunque era logico che in modo differente si affrontassero le questioni.
Può sembrare inopportuno – questo è chiaro – scomodare un passato che, nel bene o nel male, non è stato così misero come il presente che ci troviamo a vivere. Ma si fraintenderebbe, se si credesse che si tirino fuori dalle biblioteche i vecchi tomi dell’illustre pensiero italiano solo per interpretare le mosse di Fini e Berlusconi. Il comportamento dei due è molto più facile da comprendere sotto la categoria dell’utilitarismo spicciolo, comune del resto anche alla sinistra, che senza provare una ‘riforma’ del pensiero di Marx, si è data in braccio al bieco nichilismo libertario della provincia borghese.
Non le scelte dei due caporioni dovrebbero indurre a riflettere ma le loro schiere. Contrariamente ai pochi nomi che monopolizzano lo scenario politico, e che non sono di grande qualità, i due schieramenti hanno al loro interno uomini che, per vita e formazione, avrebbero dovuto attestarsi su trincee diverse. Che con Berlusconi ci sia Antonio Martino, mente pensante del liberismo nostrano, o un Marcello Pera, che perfino nel suo ultimo Perchè dobbiamo dirci cristiani ha dato del liberalismo la classica interpretazione individualista, è abbastanza comprensibile. Ma che ci fa da quella parte un Gennaro Malgeri, protagonista della cultura nazionalpopolare degli Anni Novanta, o Marcello De Angelis, direttore del mensile della destra sociale Area? E con Fini, cresciuto in via della Scrofa sotto la guida di Almirante, che ci fa un Benedetto della Vedova, radicale pannelliano?
Berlusconi sarà pure diventato populista – nel suo senso dispregiativo, perché è difficile non ammirare l’opera del populismo russo ottocentesco ed Herzen – ma non c’è dubbio che quel ‹‹liberalismo di massa›› promesso all’inizio fosse davvero una giusta intuizione. Mancò il coraggio forse, o forse sono abbondate le colpe ‘pregresse’ all’impegno politico. Ma un destra come la vuole Fini non esiste neppure ora in Europa, e quella che scrivono dalle parti di FareFuturo non potrà mai esistere in Italia.
Quello che l’uomo di destra europeo ha sempre cercato è un rapporto con il vissuto di un popolo, ed è di un popolo che la destra europea ha bisogno per esistere. Né la libertà eslege dell’individuo né la ferrea autorità della classe, ma uomini che, nel mutuo scambio all’interno di una tradizione condivisa, diventano per-sone.
La destra finiana, con le sue troppo ampie maglie tra le quali inserire l’arbitrio di ciascuno, non ha futuro. Se ancora è lecito parlare di avvenire per i partiti, di certo non lo è per quello finiano, al di là del pur consistente seguito elettorale che potrebbe avere. Tuttavia, l’avventura del prof. Alessandro Campi, pensatore di corte, e di Filippo Rossi, rapsodo bohemien dalla barbetta incolta, ha il merito di rendere ormai evidente la giusta intuizione di Marcello Veneziani, quando anni fa si chiedeva se la prossima alternativa sarebbe stata quella tra comunitari e liberal (Laterza, 2006). Sì, Veneziani aveva ragione: non moriremo né di destra né di sinistra, ma dovendo scegliere se sacrificare un po’ di noi agli altri o un po’ degli altri a noi.
Fini e la sinistra post-sessantottarda hanno scelto. Serve qualcuno che sappia incarnare l’altra alternativa.
Pubblicato il 9 ottobre 2010 su www.cataniapolitica.it
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