Per portare il gruzzoletto a un paese di vecchi che non sa più tagliare i privilegi di una casta di corrotti, si spezzano ‹‹le reni›› ai giovani. D’ora in poi hai appena sei anni, al massimo, per fare ricerca all’università. Poi, o ti sei trovato la giusta cordata, o sei fuori. Fuori, definitivamente! mica per scherzo: cambi mestiere, secondo il ministro dell’Istruzione, della quale non si sa bene se ne abbia fatto mai uno. Ricercatori precari. Precario conviene: pochi soldi, e tante false speranze. Che sono la tagliola di ogni libertà. Chi è già ricercatore, però, ancora peggio: la meritocrazia tanto decantata, in questo caso, porta direttamente alla riserva indiana. Non vai avanti, perché nessuno ha scritto come dovresti passare tu, reclutato con le regole ancora in vigore, al ruolo di associato; ti sorbisci il peso della didattica – tu solo, perché i nuovi non dovranno; te ne rimani con lo stesso stipendio dei nuovi (e qui si vede il capolavoro del ‹‹riformismo del fare››).
Arrivano i primi ricercatori: discuteranno un documento da presentare al rettore contro, appunto, il disegno di legge Gelmini. A piazza Dante, intanto, i primi striscioni fanno capolino, i ragazzi parlottano, provano cori e ridacchiano per qualche trovata audace.
Inizia la discussione in aula. Il documento viene ritoccato. Prevale la linea morbida. A Torino e in altre sedi – magari proprio in quel momento, data la corrispondenza della protesta tra gli atenei italiani – sono stati più duri. Hanno, perfino, iniziato prima la protesta. ‹‹Altrove sono ben supportati››. E da noi? ‹‹Macché! E pensare che la protesta non è mica contro l’ateneo, ma contro un ministro che calpesta la nostra dignità››. Pagati poco, considerati meno. Secondo quello che si va dicendo nei salotti catodici, dovrebbe essere qui il futuro del rilancio economico italiano.
Il documento viene approvato. Se il ministro non abbandona le sue velleità, i ricercatori potrebbero rinunciare al carico didattico. Che, in soldoni, significa l’impossibilità di far partire i corsi. Niente lezioni, facoltà ferme. Università intere rimarrebbero al palo. A Catania, si parla già di quattrocento firmatari. Nulla di ufficiale, ma c’è da crederci: questa volta non ci sono altre vie d’uscita. E neppure i soldi per alimentare lontanissime ‹‹speranze››.
Si sentono, intanto, dei cori. Il corteo dei ragazzi di Lingue s’avvicina. Si va in piazza Università ad attenderli. Il camioncino con le casse. I cori non sono tutti chic, ma provate voi ad aver stipulato un patto con qualcuno e a vedervelo strappare in faccia! L’‹‹offerta formativa›› diceva Catania. Ora vogliono mandarli a Ragusa. ‹‹Per carità! – dice uno di loro – il ragusano è bellissimo. Ragusa Ibla, poi… ma non è questo il punto››. Quale, allora? ‹‹Con i miei genitori avevamo fatto un preventivo di spesa. Mi sono organizzato questi anni qui, ed ora? Eppoi sai che c’è?››. No, che c’è? ‹‹C’è che le università stanno diventando licei. Ecco il problema. Tu un liceo lo metti dove vuoi, ma l’università deve avere un contesto, deve essere una comunità. La vita universitaria, ecco. Con le sue biblioteche, i suoi appuntamenti culturali. E -perché no? – con la sua movida››.
Il serpentone colorato si snoda per via Etnea. Si vedono alcuni docenti. I turisti, curiosi, fotografano. Non solo cori. Anche canzoni. Sulle note di Rino Gaetano si arriva davanti Palazzo Centrale. I ricercatori li stanno attendendo. Il rettore non può ricevere nessuna delegazione. Il rettore non c’è. Il rettore non può sentirli, ma loro continuano a cantare che il cielo è sempre più blu. Hanno ragione: è una bellissima giornata.
Pubblicato su www.cataniapolitica.it il 19 maggio 2010.
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