di Antonio G. Pesce- Siamo passati dalla lotta continua al continuo riciclaggio. Di personaggi e di idee, però, non di capitali, perché per questi basta già lo scudo fiscale varato dal governo qualche mese fa. È l’epoca della politica pret-a-porter, che si indossa per fare bella figura con i compaesani il dì di festa, e riporre a casa nell’armadio, quando non servirà più, a marcire con le tarme.
Per intanto, siamo all’ennesimo cambio di cravatta, che non sempre Fini ha saputo scegliere con buongusto– l’ultima sfoggiata, un pallido rosa su giacca grigia, è tutto un dire. Però, ce lo ricordiamo in camicia nera da rifondaiuolo fascista, alla fine degli anni ’80. Aveva 38 anni, ed era abbastanza grandicello per un sereno esame di coscienza. Che non fece mai, prima di sedere sugli alti scanni. Pino Tatarella e Domenico Fisichella, poi, gli offrirono il cavallo di razza su cui montare come il Napoleone di David, e lui non impiegò molto tempo per trasformare An in una sartoria prussiana di primo Ottocento: nessuno lo ricorda mellifluo stilista decadente come oggi, ma concreto e sbrigativo sarto di divise militari con annessi gradi, come quelli da colonnello dati ai suoi subalterni. E guai a fiatare! Gasparri e La Russa lo sanno bene, perché passarono un brutto quarto d’ora, quando un cronista riportò certe loro frasi pronunciate davanti ad una tazzina di caffè. E non stupisce che ora i due siano più vicino a re Silvio che al vecchio camerata: segno, questo, che il Cavaliere non è più cattivo di chi vorrebbe mandarlo in pensione.
Un cambio continuo da primadonna, passando dalla tinta nera del partito neofascista al salmone esangue di un liberalismo antifascista di comodo. Dal bianco della tunichetta di chierichetto degli anni novanta, tutto Stato e Chiesa, al rosso vivido del mangiapreti demodè delle ultime uscite. Tutto questo, combinando bene gli accessori più à la page: dal berretto di guardia costiera in stile Bossi-Fini, a quello da crocerossina per l’accoglienza e la tolleranza.
Quante svolte del predellino ci stanno? Quante occasioni di dialogo, negli anni, non ci sono state? E allora si capisce che il problema non è il taglio dell’abito né il colore, e forse neppure il modello, perché, alla fine della fiera, con qualche promessa di maggiore ‹‹collegialità››, Fini ha accettato di tutto, perfino il processo breve. Il problema sta nel palco, nella passerella. Che manca. E manca perché non c’è nessun’altra contropartita. Gli italiani non abbiamo il culto delle istituzioni ma degli uomini. E fino ad oggi, è stato Berlusconi a seppellire Fini (e non viceversa), in quella tomba del protagonismo politichese che è la presidenza di uno dei due rami del parlamento. Qui, in Italia, o presidente della Repubblica o presidente del consiglio. E data l’età, c’è poco da lambiccarsi il cervello.
Ci poteva essere un’altra contropartita. Avere, cioè, un compito, un dovere, e a quello restare fedeli. Ci sono milioni di italiani che non sentono parlare più di Dio-Patria-Famiglia, se non nelle canzoncine di Sanremo. C’è una nazione, l’Italia, che aspetta grandi riforme meritocratiche e antiburocratiche. C’è un popolo che vuole tornare a pensarsi come tale. Ecco il dovere. E vivere per un dovere significa avere grandi meriti storici. Passi che non poteva rifarsi a Cicerone o a Gentile: non c’è da salvare la Repubblica né fare gli italiani. Ma Fini lì, al supremo comando della destra, c’era stato messo da Almirante. Un piccolo compito da assolvere sulla scorta di un grande esempio fatto in casa. Non era dunque così difficile.
Pubblicato su www.cataniapolitica.it del 18 marzo 2010
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