Per alcuni la storia, o ciò che essi pensano sia storia, non sbaglia mai. Non si può essere certi di questo, ben che meno lo si può essere in nome di un semplicistico storicismo, che confonde le ragioni della storia con il conformismo dei vili, però si può star certi che, anche quando la storia sbagliasse, nessuno se ne accorgerebbe, o troverebbe in seno alla società – così suole ormai chiamarsi l’accozzaglia di individualismo e barbari desideri che preme sulle pareti della storia, per alterarne quella presunta vascolarità di ragione che i più dotti definiscono il farsi dell’idea – chi la scuserebbe. Il mondo è malato di collaborazionismo. Cioè appiattimento sulle posizioni del più forte, senza alcuna considerazione sulla veridicità delle medesime. Quando l’appiattimento lo si ha su quelle del meno forte, si chiama eroismo. Si definisce, infine, giustizia lo stare dalla parte giusta, sine ira et studio.
Il deserto dilaga, e ormai è entrato anche a desertificare lo stesso nucleo vitale di questo mondo. Quando sarà morto – quando sarà spento anche l’ultimo bagliore di luce nello spirito umano, allora potremo resettare il programma, e disattivare completamente la vita: vivere non avrebbe più senso, o anche se lo avesse, non sarebbe più significante.
La giovane Eluana Englaro è morta. E questo è un dato irreversibile. Troppi corvi al suo capezzale, e poi la legge non dice mai di aver sbagliato. E questa volta non è il mero spirito soggettivo a urlare il suo particolare richiamo: gli spiriti sono stati incantati dallo spirito oggettivo nella sua forma più alta, la polis. Cicuta o Croce? No, più semplice: niente acqua, niente pane. Avesse ucciso o stuprato, avrebbe potuto contare su tanti oziosi dello slogan, che ne coniano uno ancor prima di aver un valido motivo per urlarlo, e poi attendono come cavalieri decaduti, che un’idea s’incarni in loro e li chiami a giornata per la raccolta sui campi catodici della notorietà. Ma Eluana – questo è il nome che rimarrà impresso – ha fatto molto di più: ci ha toccati lì dove il male del secolo si nasconde, in quella profondità che, come figli di questa era, ognuno di noi si porta seco. Eluana ha gridato –e non voleva farlo, e paradossalmente l’hanno indotta a farlo proprio quelli che la vorrebbero morta già da diciassette anni – una verità insopportabile, sotto forma di domanda: che ne è di una vita che ha limiti? Con buona pace di Kant, niente! E non si tratta di contrapposizioni tra diverse visioni politiche o religiose, ma di duri conflitti tra forze morali e comportamenti educativi e, soprattutto, si tratta di domande. Di una domanda in particolare: che senso ha la vita? E che senso può avere fuori dalla manifestazione delle propria egoicità?
Morta Eluana. Ma la domanda ormai è stata urlata. Si scandalizzi chi vuole, non si può più tornare indietro. E anche quando Eluana avesse risposto, davanti al dolore dell’amico che si spegne su un letto d’ospedale, tempo prima che ciò cominciasse ad accadere anche per lei, siamo sicuri che quella risposta non sia l’eco della risposta che i vecchi lasciano ai giovani? Quanti anni sono necessari, signor giudice, perché un giovane possa rispondere autenticamente a quella domanda sul senso della vita? Coraggio, signori! Non facciamone un caso umano, una tragedia, come suole dirsi in queste circostanze, ma una questione di disputa per i filosofi e i giurisperiti, mera disputa teorica: ne abbiamo sterminati abbastanza di persone, perché un’altra non sia che un numero sul taccuino dei diritti civili. La domanda delle domande – passi: non facciamocela dire dal Papa la risposta, ma neppure la si può leggere sui giornali, notoriamente utili per incartarci il pesce. Qualcuno risponda: quanti anni sono necessari?
Questa la domanda – il perno della faccenda – che rimarrà elusa. E frattanto ascolteremo i meccanici della coscienza e quelli della legge raccontarci cosa è e cosa non è giusto, cosa si poteva e cosa non si poteva fare: i figli del dubbio che riposano sulle cartacee certezze del potere.
La barbarie è entrata. Il deserto è avanzato. Confidiamo nella parola di un pazzo, che prometteva guai a coloro che, dentro sé, nascondono il deserto.
Antonio Giovanni Pesce